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sabato 9 giugno 2012

Su tratta e violenza sulle donne

Recentemente ho avuto la fortunata occasione di partecipare a due incontri a Roma nell'ambito di un Corso di perfezionamento sulla violenza di genere organizzato da Be free, cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni. Corso a cui avrei tanto voluto partecipare, se solo il lavoro me l'avesse consentito.
Be free, di cui ho parlato anche qui, fa un lavoro notevole nell'ambito dell'intervento a sostegno delle donne che subiscono violenza di genere e delle donne immigrate vittime di tratta. Gestisce ben quattro servizi: lo sportello di pronto intervento SOS Donna 24 h,  quello al pronto soccorso dell'Ospedale San Camillo di Roma per la violenza sessuale e domestica, lo sportello a favore di donne vittime di tratta aperto presso il CIE di Ponte Galeria e ultimamente ha attivato "Coming out dalla violenza", specificamente per donne lesbiche che subiscono violenza in ambito familiare, lavorativo, di coppia.

In questo post accennerò ad alcune cose dette nel primo dei due incontri da me seguiti, il giorno 1 marzo, in cui Oria Gargano e Francesca De Masi hanno parlato di intervento nell'ambito della violenza sulle donne, in particolare nella coppia,  e della tratta, facendo un confronto tra le due situazioni che per me è stato davvero illuminante.  Sono emersi importanti aspetti che accomunano le due esperienze, sia sul piano del vissuto della donna che sul piano di alcune problematicità nel lavoro dei servizi sociali.
La cosa che mi ha colpita più di tutto è stato proprio il fatto che in entrambi i casi anche chi opera nell'accoglienza e nel soccorso spesso tende ad aspettarsi troppo dalle donne. Si tende ad avanzare implicitamente la presunzione che la donna debba raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e bugie o che debba in qualche modo manifestare un'intenzione di uscire dalla sua situazione, che sia lasciare il marito maltrattante o denunciare il suo sfruttatore. Non si fa poi abbastanza attenzione ai sintomi e segnali rivelatori di un vissuto di violenza che, ad esempio, per le donne che vivono con partner maltrattanti, possono essere anche di tipo psicosomatico e possono essere confusi con altro, specie quando non si ha una formazione specifica che permette di riconoscerli (per esempio tra i medici di base).  Non si tiene poi conto - per quanto riguarda le aspettative sulla determinazione della donna a uscire dal vissuto di violenza - che l'esperienza di una donna con marito violento non è fatta solo di ombre, ma anche di luci, di momenti di false riconciliazioni e manifestazioni di affetto da parte del soggetto maltrattante, che ben si spiegano all'interno del meccanismo della spirale della violenza. Con la precisazione che quest'ultima risulta comunque troppo schematica e approssimativa e che l'esperienza singola non vada mai ridotta ad uno schema preconfezionato, rischiando di schiacciare la soggettività della donna e la sua progettualità individuale anche all'interno di un rapporto violento.
E' proprio questo che, secondo Oria Gargano di Be free, invece si tende spesso a fare, anche per le donne oggetto di tratta. Aspettarsi una sorta di "vittima preconfezionata" dai nostri pregiudizi, in una visione che tende ad essere anche offensiva, nel non rispettare la complessità dei vissuti. Per le vittime di tratta sono vissuti davvero terribili, in cui spesso si tende ad attuare una rimozione selettiva - meccanismo del tutto naturale in situazioni di estremo pericolo - a fronte della quale ad esempio le forze dell'ordine pretendono invece dovizia di particolari per poter accogliere una denuncia che altrimenti viene archiviata. E qui si dovrebbe aprire una parentesi sulla totale impreparazione che regna sovrana in quest'ultimo campo in cui mancano persino interpreti e mediatori culturali, preparazione che pure viene richiesta da tutti i protocolli internazionali antitratta. Su ciò che avviene nei CIE poi non mi dilungo, rimandando al post che ho linkato anche sopra e a questo blog.
Non si capisce perché una persona in situazione di grave difficoltà e che ha subito tanti abusi, dovrebbe condividere i dettagli della sua sofferenza, raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e/o bugie. Specie se non si è ancora stabilito un rapporto di fiducia fatto innanzitutto di pieno rispetto, che dosi sapientemente empatia e percezione dell'alterità, non schiacciando la donne nel ruolo di vittima né giudicando. Innanzitutto c'è da tener conto del fatto che, se per ogni donna è difficile e per niente scontato definirsi vittima di violenza (ad esempio da parte del marito, l'uomo che si è scelto di sposare) così diventa difficilissimo per una vittima di tratta definirsi tale e raccontarsi, innanzitutto date le minacce che si subiscono dagli sfruttatori mafiosi, rivolte anche alle famiglie.
Nella tratta, poi,  la tendenza a fingere per poter sopravvivere, a raccontare bugie, a sviluppare modalità seduttive di relazione è assolutamente in linea con il tipo di esperienze vissute, insieme a una forma di resilienza che porta a "spegnere il cervello" e a un grande senso si svalutazione di sé, che rende difficile anche solo pensare che qualcuno voglia porgerti un aiuto disinteressato e che ci si possa fidare davvero. Si può anche sviluppare un rapporto ambivalente con lo sfruttatore simile a quello di una donna con partner maltrattante, fatto anche di momenti di "normalità", a cui in ogni situazione, si cerca comunque di accedere. E' pregiudiziale e giudicante aspettarsi una persona "in catene". Non è un caso che anche sul piano legislativo il consenso della vittima sia irrilevante per il reato di tratta, questo non cancella di certo la violenza di quello che è definito come un crimine contro l'umanità. Ultima affinità tra violenza sulle donne nella coppia e tratta - ma non ultima in ordine di importanza - il contesto culturale giustificativo in cui si muovono entrambe le situazioni, che rende ancora più difficile la posizione di chi subisce violenza e il riconoscimento di essa.
Per tirare le somme, dovremmo riflettere tutti, non solo gli operatori, sul fatto che siamo noi a dover andare incontro a chi ha subìto violenza, aprendo loro una porta e non pretendere che siano loro a venirci incontro soddisfando le nostre aspettative.

giovedì 19 gennaio 2012

Storie di ponte e di frontiere


Ho notato, da quando ho deciso di occuparmi dei temi di questo blog, che una delle difficoltà maggiori nel capirci qualcosa è data dal fatto che chi più conosce la realtà dei fatti spesso ha ben poco tempo per raccontarla e per esprimere le sue opinioni su internet o nei libri. Chi ha tanto tempo, al contrario, non opera nel concreto e quindi per quanto magari giornalista preparato e acuto possa essere, gli manca la conoscenza diretta, indispensabile per temi così complessi e sostanzialmente ignorati dai media mainstream.

Questo libro a cura di Oria Gargano è una delle eccezioni che pure per fortuna esistono, perché nasce dalla concreta esperienza dello Sportello di consulenza e assistenza tenuto dalla Cooperativa sociale Be Free per le donne detenute nel CIE di Ponte Galeria a Roma. Lo scopo dichiarato nell'introduzione di questo libro è proprio quello di far conoscere questa esperienza che "ci appare sempre di più come un patrimonio del quale non vogliamo e non dobbiamo essere le uniche depositarie".

Il libro offre una parte in cui spiega cosa è e da dove nasce un CIE, mostrando con ottima sintesi come è evoluto - o meglio involuto - il panorama normativo italiano dal testo unico sull'immigrazione (decreto legge Turco-Napolitano 286/1998) fino alla legge Bossi-Fini (189/2002) e al cosiddetto pacchetto sicurezza (legge 94/2009) che introduce il reato di clandestinità e la detenzione nei CIE fino a sei mesi.

Colpisce enormemenete il contrasto tra questa normativa di tipo repressivo, le violazioni di diritti umani che avvengono nei CIE e il dato di fatto che la maggior parte delle donne lì detenute dovrebbe invece essere aiutata in quanto "vittime di molti reati, definiti dalla Corte Penale Internazionale nel suo Statuto approvato nel 1998, crimine contro l'umanità: omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata ed altre forme di violenza sessuale di analoga gravità". La maggior parte delle donne detenute nei CIE di fatto è vittima di tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo. Queste donne si trovano spaesate, non capiscono perché sono detenute senza aver compiuto alcun reato, ma avendone invece subìti: "è difficile capire che il tuo non avere il permesso di soggiorno e neanche i documenti è una colpa così grave, soprattutto quando - circostanza che accomuna circa i due terzi delle donne che vi sono trattenute - il passaporto te lo hanno levato i tuoi sfruttatori, insieme alla libertà e alla dignità".

L'unica strada per evitare l'esplusione è offerta dai percorsi per il diritto d'asilo o da quelli previsti dall'art. 18 del Testo unico sull'immigrazione (permesso di soggiorno di sei mesi per le vittime di tratta che denunciano i propri sfruttatori). Le operatrici dello Sportello di Be free, supportano, con competenza e adottando un'ottica di genere, le donne per aiutarle a inserirsi in uno di questi percorsi, operando fondamentali sinergie con diverse realtà associative e istituzionali, pur tra mille problemi. Le ragazze hanno grandissima difficoltà a sporgere una denuncia, sono spesso controllate dagli sfruttatori anche all'interno del CIE e ricevono minacce e ritorsioni concrete contro le famiglie. Se nonostante tutto denunciano coraggiosamente, spesso trovano poca comprensione, mancanza di preparazione degli operatori o mancanza di mediatori culturali e rischiano di essere espulse ugualmente, incontrando nei loro paesi stigmatizzazione, emarginazione e finendo spesso per essere trafficate nuovamente.

Le donne presenti nel CIE di Ponte Galeria e incontrate dalle operatrici di BeFree sono di diverse nazionalità: Nigeria, Cina, ex Jugoslavia, paesi maghrebini, Albania, America latina e in piccola parte dell'exURSS, rumene o bulgare trovate senza documenti al momento del fermo e portate nei CIE nonostante siano cittadine comunitarie. La maggior parte delle donne vittime di tratta per sfruttamento sessuale nel CIE di Ponte Galeria è nigeriana (ma ci sono anche brasiliane, rumene, cinesi, russe, donne provenienti dalla ex Jugoslavia).

E' sulla tratta delle nigeriane che il libro ci offre un importante approfondimento, contenendo anche una lettera di Isoke Aikpitanyi scritta espressamente per BeFree - in cui è spiegato il contesto difficile di sottomissione e discriminazione che vivono le donne in Nigeria fino a venire in occidente e "non entrare però in una realtà di più diritti per le donne e più benessere, ma solo nella realtà dove tutto ha un prezzo e si compera, anche il sesso".

Oltre a un esame della situazione della Nigeria - paese devastato dalla rapina effettuata dalla grandi compagnie petrolifere occidentali come Agip e Shell - c'è poi un importantissimo dossier che contiene informazioni dettagliate sul traffico di donne nigeriane attraverso la Libia, così come ricostruito dalle operatrici di Be Free nei colloqui con le donne incontrate nel CIE. Be Free chiede espressamente una estensione dell'art. 18 per i casi in cui le donne siano state sfruttate sessualmente nei bordelli libici e trafficate attraverso questo paese, pur se ancora non sfruttate nel territorio italiano, così come previsto dai più recenti protocolli internazionali antitratta che prevedono una nozione e un intervento coordinato transnazionale sul traffico di esseri umani.

Leggendo il dossier (che si può anche scaricare dal sito di Be Free) si percepisce bene la complessità di una vera organizzazione criminale transnazionale con molteplici figure che ricoprono altrettanti ruoli nel sistema, oltre a conoscere nei dettagli l'immane tragedia della pericolosissima deportazione attraverso il deserto. Come il cimitero a cielo aperto a metà strada tra Dirkou e Tumu in Niger, dove sono sepolte senza nome un centinaio di persone morte nel Sahara.

Potete ordinare il libro direttamente scrivendo a Be Free (così ho fatto io) o su IBS.