venerdì 14 giugno 2013

L'ordine neoliberista, il tabù della vittima e l'occultamento delle ingiustizie

Per la rubrica opinioni, riporto la traduzione di Maria Rossi, che ringrazio,  di alcuni brani del recente libro della giovane femminista e anarchica svedese Kajsa Ekis Ekman (nella foto), tradotto in francese col titolo "L’être et la marchandise. Prostitution, maternité de substitution et dissociation de soi."
E' un punto di vista originale il suo e che richiama l'attenzione sulle insidie di una errata e tendenziosa lettura della parola  "vittima" come di persona passiva, oggetto e non soggetto, che ha reso questa parola - di tutt'altro significato - un vero e proprio tabù.
 In una società basata sul paradigma neoliberista che promuove sempre più profonde disuguaglianze di classe, di genere, di etnia, ecc.. , proteso a conservare tenacemente l'ordine sociale basato sul privilegio di pochi -  si tende sempre più ad occultare le ingiustizie strutturali, assolvendo gli oppressori e finendo per ridurre persino le oppressioni più crudeli a libera scelta di soggettività atomizzate. Scomparsa la vittima, scomparso l'aggressore, scomparsa l'ingiustizia, fino ad arrivare a risvolti estremamente inquietanti..

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La vittima e il soggetto
Al centro del mito del lavoro sessuale, c'è  un'espressione affascinante: la venditrice di sesso non è una vittima, ma una personalità forte che sa quel che fa. Quando una persona cerca di dimostrare quanto sia dannosa la prostituzione, viene investita da una prorompente risposta: le sex workers sono persone forti e attive, non vittime!
[...] E' sempre più frequente la celebrazione del soggetto forte e attivo contrapposto alla vittima debole e passiva.
[...] Con questa opposizione tra vittima e soggetto, il discorso favorevole al lavoro sessuale cerca di  creare la propria rappresentazione della situazione. Questa rappresentazione presume che, fino ad oggi, la società abbia considerato le prostitute vittime senza difesa, mentre attualmente si sia cominciato ad ascoltare le stesse venditrici di sesso e a scoprire che esse sono, al contrario, forti individualità che hanno scelto liberamente di vendere sesso. Questa concezione è ripetuta così spesso, oggi, da essere diventata una verità in certi ambienti, cancellando per ciò stesso l'obbligo di discutere di questioni come queste: chi pensa che le prostitute siano delle vittime, cos'è una vittima e che cosa differenzia una donna forte da una debole?

Sopprimere la nozione di vittima
Definire le prostitute persone forti è un'idea che si è  parecchio radicalizzata nel dibattito internazionale sul lavoro sessuale. Jo Doezema, che appartiene al gruppo di pressione "Network of Sex Work Projects", ritiene che dovremmo sopprimere totalmente l'idea della vulnerabilità del soggetto [...]

Piano inclinato: l'indipendenza
All'inizio, il discorso favorevole al lavoro sessuale era piuttosto moderato. Ciò che ha posto fortemente in luce Östergren parlando esclusivamente, a proposito di prostituzione, di adulti consenzienti; la nozione di <<lavoro sessuale>> escludeva allora i bambini o le vittime della tratta a scopo di prostituzione. Analogamente, Maria Abrahamsson scriveva sul giornale Svenska Dagbladet:

Davvero, non comprendo come si possano mettere sullo stesso piano le persone che vendono liberamente sesso e quelle infelici che, a causa della povertà o delle ridotte capacità intellettuali, cadono nelle grinfie di chi le sfrutta cinicamente.

Qui, alcune persone hanno il diritto di essere qualificate vittime, ma solo se sono passive o stupide. Per contro, le persone attive e consapevoli della propria scelta non possono, a quanto pare, subire un simile affronto. La tratta a fini di sfruttamento sessuale e la prostituzione infantile sono utilizzate come ricettacoli, come pattumiere di tutto ciò che spaventa nella prostituzione - di ciò che tutti possono rifiutare senza difficoltà: la coercizione, la povertà e la labilità mentale. Una volta che ci sia sbarazzati di tutto questo, si potrà discutere di una prostituzione nazionale normalizzata, senza spazzatura, composta esclusivamente da imprenditrici del sesso indipendenti.

La tratta degli esseri umani
Tuttavia, nei Paesi dove l'idea della legalizzazione della prostituzione si è materializzata, i confini tra la prostituzione degli adulti, quella dei bambini e quella delle vittime della tratta hanno cominciato  a diventare porosi. Una volta affermata l'idea di una prostituzione ben gestita, si può anche pulire la pattumiera, affinché la tratta a scopo di prostituzione sembri un mito. La sociologa Laura Augustìn, legata al gruppo di pressione "Network of Sex Work Projects" , ha impiegato questo tipo di detersivo. Ha scritto diversi libri che descrivono la tratta degli esseri umani come un mito mediatico. Collabora anche al quotidiano The Guardian, ove pubblica articoli su questo argomento, in alternanza con altri su donne forti che <<hanno scelto liberamente>> di portare il burqa. Tuttavia, Augustìn insiste soprattutto sull'idea che sia necessario smettere di parlare della tratta degli esseri umani, perché ciò significa <<vittimizzare>> le persone. Conseguentemente, ella ribattezza le vittime della tratta a scopo di prostituzione <<sex workers migranti>>, ritenendo che la donna che ha vissuto la tratta  sia stata, in fondo, fortunata:

Lavora nei club, nei bordelli, nei bar e negli appartamenti multiculturali dove si parlano molte lingue. [...] Per quelle che vendono servizi sessuali, gli ambienti nei quali vivono sono luoghi di lavoro dove molte ore sono consacrate all'incontro con altre persone che esercitano la stessa attività, alla conversazione,  alle bevute con le colleghe, così come con i clienti e con gli altri impiegati dei locali come i cuochi, i camerieri, i commessi,  i portieri, alcuni dei quali dimorano lì, mentre altri vi si trovano per lavoro. Trascorrere la maggior parte del tempo in tali ambienti è un'esperienza che crea soggetti cosmopoliti, almeno nel caso in cui le persone siano capaci di adattarvisi. Per definizione, ciò genera una relazione particolare con l'ambiente. Questi cosmopoliti ritengono che il mondo appartenga a loro, che non  sia che un luogo  da abitare.

L'immagine della vittima della tratta a fini di prostituzione è dunque quella di una persona che banchetta con i benestanti, frequenta i locali notturni in diverse metropoli e forse dà, occasionalmente, una toccatina  ai clienti dietro il bancone del bar. E' felice e   un'impressione di agiatezza. E' interessante notare che non figura da nessuna parte nella descrizione di questo ambiente <<lussuoso>> in che cosa consista in realtà questo <<lavoro>>.

I bambini
Abbiamo imboccato una strada nella quale anche i bambini sono percepiti sempre di meno come vittime. In un contributo all'antologia Global Sex Workers, Heather Montgomery, un'antropologa sociale, si  applica  a problematizzare l'immagine dei bambini presentati solo come vittime della prostituzione. Ella ha effettuato delle ricerche in un villaggio tailandese e pensa di aver scoperto qualcosa   che contrasta con  l'immagine dei bambini sfruttati. Montgomery comincia con il constatare che si tratta di un villaggio povero <<senza acqua corrente, con un accesso sporadico all'elettricità>>, che sorge vicino a una località turistica. In questo villaggio vivono 65 bambine di età inferiore ai 15 anni, almeno 40 delle quali <<hanno lavorato, in un momento o nell'altro della loro vita, come prostitute>>.  Mentre i media affermano spesso che la prostituzione infantile è <<un flagello che bisogna eliminare ad ogni costo>>, Montgomery vuole offrire un'altra interpretazione di queste bambine: esse sarebbero soggetti attivi e razionali.

Tuttavia, queste bambine rifiutano categoricamente di essere considerate vittime. [...] Le bambine che ho imparato a conoscere provavano << il sentimento di avere un potere di decisione e di controllo>> e, togliergli questo, significherebbe negare il loro modo intelligente di utilizzare il poco controllo che possiedono effettivamente. La ricerca di bambini vittime di sevizie cancella talvolta il riconoscimento della loro capacità di agire.

Montgomery critica le persone che pretendono che tutte le bambine prostituite siano <<sessualmente sfruttate>>. Ella afferma che, anche se le bambine non amano la prostituzione, hanno sviluppato dei modi per gestirla  nella maniera migliore:

Nessuna bambina apprezzava il fatto di essere una prostituta, ma tutte avevano sviluppato delle strategie che consentivano loro di comprenderla e di accettarla. Avevano trovato un sistema etico. Così la vendita del loro corpo non influenzava il loro sentimento personale di umanità e di integrità.

La prostituzione non influenza, dunque, le bambine tailandesi nel modo che si potrebbe credere, spiega Montgomery. Il segreto sta nel non paragonarle alle bambine occidentali [...] In Thailandia, sostiene la studiosa, il rapporto tra sessualità ed identità non è forte come in Occidente. E' la ragione per la quale noi non possiamo essere sicuri che il danno causato alle bambine di questo Paese sia altrettanto grave di quello che colpisce le bambine occidentali. Che le bambine abbiano molti modi di sfuggire alla loro identità di prostitute, parlando degli acquirenti del sesso come dei loro <<amici>> e non menzionando la prostituzione, ma dicendo di <<avere degli ospiti>> o di <<divertirsi con degli stranieri>>, dimostra per Montgomery che la prostituzione non costituisce un elemento centrale della loro costruzione identitaria. Non si può dunque affermare con certezza che essa altera la loro identità. L'altro elemento positivo, secondo lei, è il fatto che le bambine più grandi diventino madame (magnaccia) delle più giovani [...]
Pare che non ci sia modo per una bambina prostituita tailandese di comportarsi in maniera tale  da impedire a Montgomery di vedere in lei un soggetto attivo.

L'essere invulnerabile
Perché questo timore della vittima? Perché è così importante affermare che le prostitute non sono in alcun caso delle vittime?
Come tutti i sistemi che accettano le diseguaglianze, l'ordine neoliberista detesta le vittime. Parlare di un essere umano senza difese, di un essere vulnerabile, presuppone in effetti che sia necessario instaurare una società giusta e afferma  il bisogno di una protezione sociale. Rendere tabu la nozione di vittima è un passo necessario alla legittimazione della barriera che separa le classi sociali e i sessi. Questo processo è costituito da due fasi.
In primo luogo, bisogna affermare che la vittima è, per definizione, una persona debole, passiva ed impotente. Poiché le persone vulnerabili sono, nonostante tutto, combattive e sviluppano numerose strategie per dominare la situazione, <<si scopre>> che l'idea che ci è fatti della vittima è sbagliata. La persona vulnerabile non è passiva, al contrario! Quindi, ci dicono, bisogna abolire la nozione di vittima. Di conseguenza, noi dobbiamo accettare l'ordine sociale - la prostituzione, la società divisa in classi, le diseguaglianze - se non vogliamo etichettare le persone come esseri passivi e impotenti.
C'è qualcosa di bizzarro in questa definizione della vittima. Secondo il Glossario dell'Accademia svedese, una vittima è <<qualcuno o qualche cosa che diventa  un bersaglio per qualcun altro o per qualcos'altro>> o che <<subisce qualcosa>>. Ciò significa, quindi, che una persona è vittima di qualcuno o di qualcosa.  Ma nulla qua si dice del carattere della vittima - si tratta soltanto di ciò  che una persona subisce da parte di qualcuno, qualcuno che la picchia, la stupra, è violento o la sfrutta in un modo o nell'altro.
Tuttavia, la definizione neoliberista della vittima  fa riferimento ormai al fatto che  essa sia un tratto del carattere. Essere vittima significa essere una persona debole. Noi siamo o vittime passive o soggetti attivi. Non si può essere contemporaneamente l'una e l'altro.
[...] In fondo, se non ci sono vittime, non ci possono essere neppure aggressori. Così, in un modo al contempo molto comodo e inavvertibile, coloro che non vengono mai menzionati - gli uomini- vengono discolpati. Negli scritti di Augustìn, Dodillet e Montgomery, gli uomini sono come ombre sul muro, come figuranti, che appaiono di sfuggita, ma che, miracolosamente, vedono finalmente legittimati tutti i loro desideri. Mentre ci si concentra sulle donne e sui bambini - che sono studiati, intervistati, computati e descritti -, nello stesso tempo non si rivolge alcuna domanda agli uomini. Nemmeno la più importante di tutte: perché fate questo?
La frase << è un soggetto, non una vittima>> non è di moda soltanto nel dibattito sulla prostituzione. Noi la sentiamo ripetere in numerose occasioni, si propaga nell'atmosfera come i ciuffi di peli del tarassaco e mette radici dappertutto. Nel discorso  concernente le persone che si trovano in una condizione di vulnerabilità, viene incessantemente replicata l'espressione: sono soggetti, non vittime....
[...] Dobbiamo confrontarci quasi tutti i giorni con una retorica che dipinge la condizione della vittima come qualcosa che ha a che fare con il suo comportamento. La si giudica e la si esorta a non essere vittima! E' orribile essere una vittima! La nozione di vittima è   intesa come un'identità, alla quale è associata una moltitudine di caratteri detestabili che si dovrebbero rifuggire. La dottrina dell'essere invulnerabile diventa così un imperativo categorico che definisce la condizione dell'individuo liberale e responsabile. Per definizione,  qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo vederci come esseri forti ed attivi. I disoccupati e le disoccupate, gli ammalati, i rifugiati- nessuno deve essere percepito o considerato vittima!
[...] L'opposizione tra soggetto e vittima è al contempo asimmetrica e sbagliata [...] Con ogni evidenza, il contrario di "soggetto" non è "vittima", ma "oggetto". E il contrario di "vittima" non è "soggetto", ma "aggressore". In effetti, l'opposizione soggetto-vittima esprime l'idea che la vittima sia un oggetto. Di conseguenza, la persona che diventa una vittima non è più un essere umano che pensa, nutre dei sentimenti ed agisce. Questa falsa opposizione rivela un abissale disprezzo per qualsiasi forma di debolezza. 

Kajsa Ekis Ekman



2 commenti:

  1. Premetto che non riesco a concepire l'idea del piacere sessuale a pagamento, perché ho un'idea della sessualità orientata alla relazione e non al consumo. Però, è vero anche che non mi sono mai trovata nei panni di prostituta e posso conoscere questa situazione nelle sue varie forme solo attraverso i racconti altrui. Quello che direi io è: evitare di costruire "miti" di qualunque tipo. No al mito del "soggetto forte", ma anche a quello della "vittima", che è effettivamente umiliante, per chi si vede dare questa etichetta, oltre a poter non corrispondere a realtà. Quello che io auspicherei sarebbe udire sempre meno voci che parlano di sex workers e sempre più voci DI sex workers. Come dice un mio amico: "Non ridere, non piangere, ma comprendi!"

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  2. In verità il messaggio di Kajsa Ekis Ekman non mi sembra affatto contribuire a costruire miti sulla prostituzione, bensì si tratta di una riflessione sul concetto di "vittima" e di come questo concetto sia stato deformato in modo tendenzioso dalla nostra attuale società neoliberista. Una riflessione che peraltro è molto più generale rispetto alla questione prostituzione o tratta. Il punto è la rimozione dell'oppressione e dell'ingiustizia strutturale di cui sono investiti interi gruppi sociali sfavoriti che si nutre anche proprio del tabù sulla vittima, considerato come tratto del carattere e quindi veramente marchio sulla persona e non come semplice circostanza dovuta ad una aggressione/oppressione. Tu dici che andrebbero udite più voci di "sexworkers" ed è vero (il termine stesso è niente affatto neutro e non condiviso come si crede unanimemente da chi vive /ha vissuto questa esperienza). Già se si ha voce però per esprimere quanto ti è accaduto, significa qualcosa, perché spesso questa voce non la si ha neanche.Perché troppo si marcia sul fatto che certe esperienze sono indicibili. Mentre molto forte è la voce dell'industria stessa che crea i suoi miti. La tanutaria filippina ascoltata da Lydia Cacho che insegnava alle ragazzine del suo bordello che "difficult choices are still choices", che star lì era la loro scelta e che quello era un lavoro come un altro magari è un'esemplificazione della dottrina neoliberista tanto comoda agli oppressori di cui parla Ekman.

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