Oggi, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, pubblico le parole di una mia carissima amica e compagna di lotta, Ilaria B., che a caldo mi scrive le sue impressioni su un importante convegno che si è tenuto il 21 e 22 novembre a Milano, a cui avrei desiderato tanto essere presente: "Le parole non bastano", organizzato insieme dalla Casa delle donne maltrattate di Milano e Maschile plurale. Grazie, Ilaria.
Il convegno “Le parole non bastano” è stato, io credo, un evento di un
peso e un’importanza che forse nemmeno ancora riesco completamente a
immaginare, e che certamente si farà sentire, spero con effetti
immediati e molto concreti.
E non semplicemente perché è stato voluto e
organizzato insieme da donne e uomini – certo anche, e non è una cosa da
poco – ma soprattutto per le energie, le idee e in primo luogo
l’esempio concreto di un nuovo tipo di relazione possibile tra uomini e
donne.
Perché se è vero che è con la relazione tra donne che si esce
dalla violenza, come ha detto Marisa Guarneri, una relazione che è in
primo luogo una “accoglienza come legame d’amore”, è anche vero che
tanti e tante hanno affermato e messo allo stesso tempo in pratica, in
due giorni di dibattito davvero appassionante, una relazione nuova,
diversa, tra uomini e donne che è l’unica via possibile e praticabile
per tentare di sradicare la violenza maschile contro le donne al suo
punto di origine. E’ stato infatti ribadito da più parti, e a me pare
che non lo si sottolinei mai abbastanza, che non è con la repressione –
che, per carità, ci vuole ed è irrinunciabile – ma soprattutto con la
prevenzione che occorre affrontare la violenza di genere. E, altra
distinzione centrale, non è con interventi istituzionali ma con una
collaborazione trasversale e a partire dal basso, dalla comunità, che
possiamo sperare di venirne a capo.
Di un convegno che, giustamente, sottolineava il limite delle parole – in modo sottile, naturalmente, perché dialetticamente il potere della parola era continuamente evocato e agito – mi rimane una costellazione di termini e idee che non a caso continuavano a riemergere: emozioni, sentimenti amore, desiderio, relazione. La teoria di quello che è stato detto la conosciamo: è il racconto della difficoltà a fare emergere, a “dire” la violenza per poterla affrontare, curare, sanare, in chi la subisce, in primo luogo, ma non solo. La novità è che si è parlato, e con forza, della necessità di dire e dunque affrontare la violenza là dove nasce, e cioè in un immaginario condiviso sul quale dobbiamo lavorare, a partire, come luogo imprescindibile, dall’educazione, ma muovendoci anche in altri ambiti.
Di un convegno che, giustamente, sottolineava il limite delle parole – in modo sottile, naturalmente, perché dialetticamente il potere della parola era continuamente evocato e agito – mi rimane una costellazione di termini e idee che non a caso continuavano a riemergere: emozioni, sentimenti amore, desiderio, relazione. La teoria di quello che è stato detto la conosciamo: è il racconto della difficoltà a fare emergere, a “dire” la violenza per poterla affrontare, curare, sanare, in chi la subisce, in primo luogo, ma non solo. La novità è che si è parlato, e con forza, della necessità di dire e dunque affrontare la violenza là dove nasce, e cioè in un immaginario condiviso sul quale dobbiamo lavorare, a partire, come luogo imprescindibile, dall’educazione, ma muovendoci anche in altri ambiti.
Quello che è successo (sottolineo successo, e non semplicemente che è
stato detto) è che è stato evocato e insieme praticato il tema del
desiderio, dell’amore, della felicità. Era palpabile nella forma, sempre
dialogica, di un confronto tra uomini e donne, in cui si sono
articolati gli interventi. Ma non solo: era proprio la linfa che si
sentiva scorrere, era nel pubblico, nelle pause, a pranzo. Una curiosità
reciproca, un ascoltarsi attento e insieme entusiasta, dell’entusiasmo
di una continua scoperta.
So bene che si stanno tentando esperimenti di
dialogo in più luoghi, in spazi più o meno virtuali, ma questo è stato, a
mio parere, qualcosa di molto speciale. Forse perché il “partire da sé”
è stato un collante fondamentale, al punto che, direi, nella
costellazione delle idee e delle parole che circolavano e dominavano i
discorsi, è stato l’idea più forte, la più sottolineata come
l’ingrediente fondamentale di ogni risposta possibile praticabile alla
violenza. Ne è nata una presentazione di esperienze che ha fatto
nascere, a sua volta, nuove idee e proposte. Legate da un filo: la
risposta non sta nelle istituzioni e non sta nella repressione. La
risposta possibile è nella comunità, nell’attivare le sue risorse, nel
cambiamento dell’immaginario, nel portare più persone a riconoscere la
violenza e a rivolgersi ai centri antiviolenza. Il ruolo delle
istituzioni non è ovviamente privo di importanza, ma è un ruolo che deve
prendere le mosse e la direzione a partire dall’ascolto di chi contro
la violenza lavora ogni giorno.
Sarebbe importante dare uno spazio a ciascuna delle voci che hanno
declinato la relazione e le soluzioni in un intreccio di sfaccettature
che dialogavano e si richiamavano. Per oggi deve bastare una parola:
educazione. Lo ha detto l'assessore alle politiche sociali, lo ha detto
un'antropologa che ha raccolto le voci delle donne che troppo spesso non
trovano negli ospedali persone pronte a facilitare il racconto della
verità (anche se, va detto, molte volte, per fortuna, le trovano), lo ha
detto un magistrato, che ha spiegato che troppi magistrati, la polizia,
gli avvocati (donne e uomini, va detto) sottopongono le donne a una
ulteriore violenza, spesso scoraggiandole dal denunciare. La violenza
per essere combattuta e fermata va in primo luogo riconosciuta e, ancor
più fondamentale, detta. Le parole non bastano ma sono il primo
strumento che abbiamo, possono essere molto potenti, possono servire a
formulare la domanda giusta, alla quale deve seguire un ascolto educato a
sentire e accogliere. E agire.
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