giovedì 18 ottobre 2012

18 ottobre (testimonianze - 5)



Oggi è la giornata europea contro la tratta di esseri umani. Non trovo niente di meglio per questa giornata che postare una lettura di alcuni brani dal libro "Le ragazze di Benin City" di Isoke Aikpitanyi. Un altro brano tratto dal libro l'avevo postato qui, mentre qui ho recensito il secondo libro, "500 storie vere".


Chi  tiene alle ragazze, anche solo come si tiene a una merce da sfruttare, non farà mai fare loro un viaggio così terribile. Vuole che tu arrivi sana e salva e in buone condizioni. Buone vuol dire: abbastanza da lavorare. Subito.
Il viaggio nel deserto lo fanno i ragazzi che non hanno trovato un’organizzazione, o le ragazze che proprio vogliono venire via e non hanno i soldi per pagare e sono disposte a morire nel provarci.
Ma una maman che fa questa cosa alle sue ragazze, ecco: è il peggio che puoi trovare, quando arrivi in Europa.
Come Carol di Brescia.
Chiedi in giro, la conoscono tutte.

Carol ha fatto un viaggio orribile, anni e anni e anni fa. E’ stata una delle prime donne che sono partite, coi primi giri, quando ancora non c’era tanta organizzazione. Partivi e via. A volte arrivavi, a volte no.
Solo quando si è capito che le ragazze sono un business redditizio sono cominciati i giri mafiosi, l’organizzazione capillare, i viaggi studiati in modo che la merce arrivasse in condizioni migliori. E’ stato allora che hanno cominciato a coinvolgere anche le famiglie nei contratti, così da avere un controllo all’origine.
Ma questa è un’altra storia, e te la racconto dopo.
Adesso ti dico che Carol ha fatto un viaggio spaventoso.
Attraverso il deserto. Non ti so dire i dettagli ma ti dico solo che chi l’ha ordinata era una che se ne fregava, come la maman di Osas. A un certo punto del viaggio a Carol si sono congelate le dita delle mani. Dice: era la mia mano sinistra, per l’esattezza. E mica l’hanno portata all’ospedale. Gliele hanno tagliate lì dove stava, con una specie di machete.
 Quando è arrivata in Italia l’hanno mandata sulla strada.
Lei ha detto no, non voglio, non posso. Ha mostrato il moncherino: guardate la mia mano, ha detto. Guardate, ha detto, io non sono in grado di lavorare.
Per fare il lavoro che devi fare, le mani non ti servono.
Proprio così. E’ questo che le hanno detto.
E la Carol di allora non era ancora la Carol di oggi, era una ragazza come le altre, una che non è riuscita a reagire, che è andata a lavorare, e lavorando ha pagato il debito. Quando ha finito di pagare ha detto: voglio fare i soldi anch’io. Io con questa mano non posso fare altri lavori.
Ha ordinato anche lei una ragazza e adesso ne ha più di dieci che lavorano per il suo guadagno, e alle prime ha fatto fare tutto il viaggio lungo, esattamente come le era toccato di fare.
Per vendetta, dici.
Può essere.
Oggi come maman è spietata.
Quando una ragazza si ribella, lei dice: cosa credi, guarda le mie mani, non ci metto niente a tagliarle anche a te.
Le sue ragazze dicono che picchia, picchia, picchia. Basta un niente e lei picchia. Ha un marito nigeriano che va a controllare le ragazze sul marciapiede, e poi fa la spia. Soprattutto d’inverno. Quando nevica o ghiaccia e devi stare fuori tutta la notte sotto lo zero. Quando sulla strada tutte accendono il fuoco, ed è normale, perché se non ti scaldi un po’ finisci congelata. Ebbene: lei non lascia mai andare le sue ragazze vicino al fuoco.
Se una ha interrotto il lavoro per scaldarsi, e ha guadagnato anche solo un euro meno del dovuto, sono botte su botte.
Carol la riempie di botte.
Dice: ti faccio passare io il freddo.
Dice: guarda le mie mani e muoviti.        
         
Quando dico che si muore dentro devi credermi.
Ci sono dei momenti in cui è tutto così spaventoso e osceno e intollerabile che non puoi stare lucida e sopravvivere. A meno di non impazzire.
Qualcuna infatti impazzisce.
Altre si riempiono di alcool, o di eroina, o di medicine come gli antistaminici che ti ovattano la testa così non pensi più a niente.
Altre ancora si rompono, dentro.
Diventano perfettamente insensibili.
E quando alla fine escono dal trambusto, l’unica cosa che sanno dire è: anch’io voglio fare i soldi, e chissenefrega  delle altre. Prima è toccato a me, adesso tocca a loro.
E’ così che va il mondo, dicono.
E  forse è il loro modo di venire  a patti con quello che hanno passato. Di farsene una ragione.

Comunque Osas ha finalmente potuto avvertire i suoi. Ha chiamato sua mamma, per dirle cos’è successo.
Meno male, ha detto la madre. Sei viva, sono contenta.
Per due anni non aveva saputo che fine avesse fatto sua figlia.
Osas ha detto: sono viva, ma guarda cosa mi fanno fare.
Ma né suo padre né sua madre sono andati a protestare con la mamma della maman. Hanno detto solo va bene, l’importante è che sei viva.
Osas ha detto: ma non sai la vita che faccio. E che freddo. E sua madre: non esagerare, in Italia si lavora nei locali, si sta al caldo.
Mamma, bisogna vendersi.
Ma sua madre non ha mai fatto problemi. Si vede che sapeva dal principio, dico io.
E a quel punto Osas non si è più ribellata con nessuno. Dopo quello che aveva passato nella foresta e nel deserto, ora si ritrovava così, senza documenti e senza soldi, e con sua mamma che diceva va bene, non importa, lavora. Non aveva un posto dove scappare. A casa non la rivolevano. Che cosa poteva fare se non chinare la testa e dire: va bene.
(p.42-45)

[…]

Intanto l’organizzazione va a far casino a casa tua. Loro lo sanno: prima o poi ‘sta ragazza chiamerà i suoi genitori. Quindi tengono d’occhio la tua famiglia, se riceve telefonate o lettere. E allora vanno in casa e dicono: la ragazza deve rispettare i patti, altrimenti vi ficcate nei guai.
E’ una minaccia che funziona sempre, soprattutto quando sono stati i genitori ad accompagnare le famiglie dagli italos, come negli ultimi due o tre anni.  Ragazzine di tredici, quattordici anni. L’organizzazione le cerca così giovani perché sono più facili da gestire, e prima che riescano a capire le cose passa molto tempo. Prima che comincino a essere veramente donne, adulte, e capire cosa gli hanno fatto fare, e cosa gli hanno fatto.
Così alle feste di paese, ai matrimoni, ai funerali, c’è sempre qualcuno che filma le ragazze, e poi le maman guardano il film: quella è bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo vecchia, quella sì che va bene. Quella piccolina lì. E’ lei che voglio.
E quando la scelta è fatta lo sponsor va dalle famiglie con dei regali. Dice: in Europa hanno bisogno di belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta. Perché non ci pensate?
E la famiglia quasi sempre dice di sì. Anzi, adesso sono le madri e i padri a muoversi, a portare le loro figlie. Sanno che in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia si è fatta la macchina, ha comprato casa. Allora dicono: anch’io.
Sanno tutto, secondo me.
Ultimamente sì, lo sanno.
Ma il paese non offre niente. E loro pensano che sì, questa figlia la mandano a fare una vita difficile, ma almeno così avranno un aiuto, potranno far studiare i bambini, comprarsi il mangiare, i vestiti, la casa.
(p. 47)

 […]

Perché è questa , forse ancora più del debito, la catena più difficile da spezzare per le ragazze. La catena dei mille obblighi familiari e delle mille responsabilità che te ne vengono. Dell’affetto. Della pena. Del desiderio comunque di essere accettate, e di pensare che al mondo, anche per te, anche se vivi in schiavitù su un marciapiede e ogni giorno muori di freddo e di angoscia, esiste ancora una casa. E’ per alimentare questo miraggio che ti ritrovi a mantenere dieci o dodici persone, e a fargli fare una bella vita mentre tu vivi  peggio di un cane.
Ed è molto difficile dire: basta.
Ma se vuoi salvarti devi farlo. Devi chiudere una porta in modo molto deciso, e trovare il coraggio di aprirne un’altra, anche se non sai che cosa c’è dietro. Io dico: un nuovo modo di vivere, di pensare, di stare al mondo. Ma è come chiudere gli occhi e tuffarsi dentro a un mare molto freddo, dico anche, senza sapere nemmeno se sei in grado di nuotare.
Però devi farlo.
Devi trovare il fegato di dire: il mio viaggio è stato tutto un fallimento.
Ed ecco, vedi, è da quel fallimento che può nascere una nuova vita.

La rabbia è la prima cosa che esce, quando dici basta.
Una rabbia furiosa e incontenibile verso tutto e verso tutti.
Finché come Osas arriva il giorno che dici: la mia rabbia adesso è per la Nigeria, un  paese pieno di rosorse ma dove la gente vive in maniera miserabile.
Dove non c’è  speranza di cambiamento o di miglioramento per nessuno.
Ed è per questo che i giovani vogliono partire, dice. Perché sono stanchi di sognare davanti alla televisione, e perché vogliono provare a farsi una vita migliore.

Io, Isoke, adesso non ci credo più che esiste il paradiso: ma un giorno anch’io ci credevo, e pensavo che fosse fuori dalla Nigeria. Non ne potevo più di stare in un posto dove i poveri sono poverissimi e i ricchi sono ricchissimi, a due metri soli da casa tua. Tu non hai la penna per scrivere e i libri per andare a scuola, la tua famiglia fatica a darti da mangiare, e i tuoi vicini danno il roast beaf al cane. Ma come fai ad accettarlo? Tu non mangi abbastanza e al villaggio vengono i parenti ricchi: vieni in città che ti faccio studiare. E poi ti ritrovi in casa loro a fare la serva.
Non si può.
Tu vedi tutta quest’ingiustizia e la rabbia nasce lì, la rabbia e la voglia di scappare, di conquistare qualcosa di meglio.
Ma che c’è di male a sognare?
Nulla, dico io.
Il male lo fa chi si approfitta dei tuoi sogni.

Le ragazze come Osas cominciano a capire.
Guardano la loro storia e capiscono.
Che hanno dovuto assumersi troppe responsabilità fin da piccole, ed è per sfuggire a quelle responsabilità che sono finite nella tratta. Ma la tratta non è la soluzione per i problemi  della Nigeria. Se le famiglie non hanno i soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora devono fare la loro parte: che protestino. Si assumano le responsabilità di chiedere ai padroni e al governo dei salari migliori, delle scuole migliori, una migliore qualità della vita.
Non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente.

Io tutte queste cose prima non le pensavo. Le vedevo e le pativo; ma è solo adesso che le ho finalmente chiare dentro la testa, e ho imparato anche ad esprimerle con le parole. Sono molto diversa dalla ragazza di vent’anni che un giorno è partita da Benin City con lo zaino della scuola e il suo unico paio di blue jeans. Nel male come nel bene, vedi, quest’esperienza mi ha fatto crescere.
Per esempio ho capito che le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, che non c’è il buono e il cattivo, la vittima e il carnefice.
E quindi ora ti spiego che la tratta non è solo un problema di sesso, di puttane e di clienti. La tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. E’ una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la maman che ho visto su un giornale, seduta su un divano a Benin City, circondata da pile alte così di soldi. Ci sono anche i bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie, quelli che magari la domenica vanno in chiesa, hanno un bel cane, bravi vicini, una reputazione su cui non appare mai l’ombra di una macchia. Sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro agli aeroporti. Sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari. Un sacco di brava gente che ha fatto fortuna grazie al traffico delle ragazze di  Benin City.
Ma agli occhi di tutti sono loro le cattive.
Le puttane.
Quelle che danno scandalo per le strade.
Quelle che pagano sempre per tutti.
(p. 195-198)

[…]
L’ultima storia che ti racconto è quella di mia sorella.
La mia sorella più piccola, quella che adesso ha poco più di vent’anni. Ne aveva quattordici quando sono partita. Mi ricordo a malapena una ragazzetta magra, con le gambe molto lunghe. Le treccine nei capelli. Gli occhi grandi così.
Pochi mesi fa mi ha detto che era incinta e che voleva venire in Europa.
Aveva trovato un viaggio, anche lei.
Ha detto: finalmente ho la mia bella occasione.
La sua bella occasione.
Ho chiuso gli occhi e dentro di me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia. Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie.
A malapena ho trovato la voce per dire: guarda, se vuoi sognare, sogna.
Ma la realtà qui è ben diversa dai sogni.
Ascolta.

Ho preso, il cuore in mano e ho cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono. L’esistenza brutta che fanno.
Era la prima volta che trovavo il coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: di dire tutto, tutto!, senza risparmiare un solo dettaglio. Vedi: non potevo tacere, stavolta. E dunque, con la bocca secca, le ho spiegato tutto come si deve. Le ho detto il freddo e le botte e le scarpe ridicole e la paura. I venticinque euro e il Ditoi e Ithoan trovata da un cane tutta mangiata dai topi.
Non pensare di essere più furba delle altre, ho detto.
Non sperare di essere diversa.
Non pensare che a te andrà meglio.
Ecco cosa le ho detto.
Lei ha solo chiesto: è successo anche a te.
Ho detto: sì.
E di venire in Europa non ha più parlato.
Devo proprio dirtelo, che sono felice?

(p. 199-200)




1 commento:

  1. L'ho letto. Vivamente consigliato. Anche per le inquietanti conclusioni di Isoke: "Ogni africana stuprata è un'italiana salvata..." :-O

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