Recentemente ho avuto la fortunata occasione di partecipare a due incontri a Roma nell'ambito di un Corso di perfezionamento sulla violenza di genere organizzato da Be free, cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni. Corso a cui avrei tanto voluto partecipare, se solo il lavoro me l'avesse consentito.
Be free, di cui ho parlato anche qui, fa un lavoro notevole nell'ambito dell'intervento a sostegno delle donne che subiscono violenza di genere e delle donne immigrate vittime di tratta. Gestisce ben quattro servizi: lo sportello di pronto intervento SOS Donna 24 h, quello al pronto soccorso dell'Ospedale San Camillo di Roma per la violenza sessuale e domestica, lo sportello a favore di donne vittime di tratta aperto presso il CIE di Ponte Galeria e ultimamente ha attivato "Coming out dalla violenza", specificamente per donne lesbiche che subiscono violenza in ambito familiare, lavorativo, di coppia.
In questo post accennerò ad alcune cose dette nel primo dei due incontri da me seguiti, il giorno 1 marzo, in cui Oria Gargano e Francesca De Masi hanno parlato di intervento nell'ambito della violenza sulle donne, in particolare nella coppia, e della tratta, facendo un confronto tra le due situazioni che per me è stato davvero illuminante. Sono emersi importanti aspetti che accomunano le due esperienze, sia sul piano del vissuto della donna che sul piano di alcune problematicità nel lavoro dei servizi sociali.
La cosa che mi ha colpita più di tutto è stato proprio il fatto che in entrambi i casi anche chi opera nell'accoglienza e nel soccorso spesso tende ad aspettarsi troppo dalle donne. Si tende ad avanzare implicitamente la presunzione che la donna debba raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e bugie o che debba in qualche modo manifestare un'intenzione di uscire dalla sua situazione, che sia lasciare il marito maltrattante o denunciare il suo sfruttatore. Non si fa poi abbastanza attenzione ai sintomi e segnali rivelatori di un vissuto di violenza che, ad esempio, per le donne che vivono con partner maltrattanti, possono essere anche di tipo psicosomatico e possono essere confusi con altro, specie quando non si ha una formazione specifica che permette di riconoscerli (per esempio tra i medici di base). Non si tiene poi conto - per quanto riguarda le aspettative sulla determinazione della donna a uscire dal vissuto di violenza - che l'esperienza di una donna con marito violento non è fatta solo di ombre, ma anche di luci, di momenti di false riconciliazioni e manifestazioni di affetto da parte del soggetto maltrattante, che ben si spiegano all'interno del meccanismo della spirale della violenza. Con la precisazione che quest'ultima risulta comunque troppo schematica e approssimativa e che l'esperienza singola non vada mai ridotta ad uno schema preconfezionato, rischiando di schiacciare la soggettività della donna e la sua progettualità individuale anche all'interno di un rapporto violento.
La cosa che mi ha colpita più di tutto è stato proprio il fatto che in entrambi i casi anche chi opera nell'accoglienza e nel soccorso spesso tende ad aspettarsi troppo dalle donne. Si tende ad avanzare implicitamente la presunzione che la donna debba raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e bugie o che debba in qualche modo manifestare un'intenzione di uscire dalla sua situazione, che sia lasciare il marito maltrattante o denunciare il suo sfruttatore. Non si fa poi abbastanza attenzione ai sintomi e segnali rivelatori di un vissuto di violenza che, ad esempio, per le donne che vivono con partner maltrattanti, possono essere anche di tipo psicosomatico e possono essere confusi con altro, specie quando non si ha una formazione specifica che permette di riconoscerli (per esempio tra i medici di base). Non si tiene poi conto - per quanto riguarda le aspettative sulla determinazione della donna a uscire dal vissuto di violenza - che l'esperienza di una donna con marito violento non è fatta solo di ombre, ma anche di luci, di momenti di false riconciliazioni e manifestazioni di affetto da parte del soggetto maltrattante, che ben si spiegano all'interno del meccanismo della spirale della violenza. Con la precisazione che quest'ultima risulta comunque troppo schematica e approssimativa e che l'esperienza singola non vada mai ridotta ad uno schema preconfezionato, rischiando di schiacciare la soggettività della donna e la sua progettualità individuale anche all'interno di un rapporto violento.
E' proprio questo che, secondo Oria Gargano di Be free, invece si tende spesso a fare, anche per le donne oggetto di tratta. Aspettarsi una sorta di "vittima preconfezionata" dai nostri pregiudizi, in una visione che tende ad essere anche offensiva, nel non rispettare la complessità dei vissuti. Per le vittime di tratta sono vissuti davvero terribili, in cui spesso si tende ad attuare una rimozione selettiva - meccanismo del tutto naturale in situazioni di estremo pericolo - a fronte della quale ad esempio le forze dell'ordine pretendono invece dovizia di particolari per poter accogliere una denuncia che altrimenti viene archiviata. E qui si dovrebbe aprire una parentesi sulla totale impreparazione che regna sovrana in quest'ultimo campo in cui mancano persino interpreti e mediatori culturali, preparazione che pure viene richiesta da tutti i protocolli internazionali antitratta. Su ciò che avviene nei CIE poi non mi dilungo, rimandando al post che ho linkato anche sopra e a questo blog.
Non si capisce perché una persona in situazione di grave difficoltà e che ha subito tanti abusi, dovrebbe condividere i dettagli della sua sofferenza, raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e/o bugie. Specie se non si è ancora stabilito un rapporto di fiducia fatto innanzitutto di pieno rispetto, che dosi sapientemente empatia e percezione dell'alterità, non schiacciando la donne nel ruolo di vittima né giudicando. Innanzitutto c'è da tener conto del fatto che, se per ogni donna è difficile e per niente scontato definirsi vittima di violenza (ad esempio da parte del marito, l'uomo che si è scelto di sposare) così diventa difficilissimo per una vittima di tratta definirsi tale e raccontarsi, innanzitutto date le minacce che si subiscono dagli sfruttatori mafiosi, rivolte anche alle famiglie.
Nella tratta, poi, la tendenza a fingere per poter sopravvivere, a raccontare bugie, a sviluppare modalità seduttive di relazione è assolutamente in linea con il tipo di esperienze vissute, insieme a una forma di resilienza che porta a "spegnere il cervello" e a un grande senso si svalutazione di sé, che rende difficile anche solo pensare che qualcuno voglia porgerti un aiuto disinteressato e che ci si possa fidare davvero. Si può anche sviluppare un rapporto ambivalente con lo sfruttatore simile a quello di una donna con partner maltrattante, fatto anche di momenti di "normalità", a cui in ogni situazione, si cerca comunque di accedere. E' pregiudiziale e giudicante aspettarsi una persona "in catene". Non è un caso che anche sul piano legislativo il consenso della vittima sia irrilevante per il reato di tratta, questo non cancella di certo la violenza di quello che è definito come un crimine contro l'umanità. Ultima affinità tra violenza sulle donne nella coppia e tratta - ma non ultima in ordine di importanza - il contesto culturale giustificativo in cui si muovono entrambe le situazioni, che rende ancora più difficile la posizione di chi subisce violenza e il riconoscimento di essa.
Nella tratta, poi, la tendenza a fingere per poter sopravvivere, a raccontare bugie, a sviluppare modalità seduttive di relazione è assolutamente in linea con il tipo di esperienze vissute, insieme a una forma di resilienza che porta a "spegnere il cervello" e a un grande senso si svalutazione di sé, che rende difficile anche solo pensare che qualcuno voglia porgerti un aiuto disinteressato e che ci si possa fidare davvero. Si può anche sviluppare un rapporto ambivalente con lo sfruttatore simile a quello di una donna con partner maltrattante, fatto anche di momenti di "normalità", a cui in ogni situazione, si cerca comunque di accedere. E' pregiudiziale e giudicante aspettarsi una persona "in catene". Non è un caso che anche sul piano legislativo il consenso della vittima sia irrilevante per il reato di tratta, questo non cancella di certo la violenza di quello che è definito come un crimine contro l'umanità. Ultima affinità tra violenza sulle donne nella coppia e tratta - ma non ultima in ordine di importanza - il contesto culturale giustificativo in cui si muovono entrambe le situazioni, che rende ancora più difficile la posizione di chi subisce violenza e il riconoscimento di essa.
Per tirare le somme, dovremmo riflettere tutti, non solo gli operatori, sul fatto che siamo noi a dover andare incontro a chi ha subìto violenza, aprendo loro una porta e non pretendere che siano loro a venirci incontro soddisfando le nostre aspettative.
è corretto tenere conto della complessità di ogni situazione, le luci e le ombre eccetera valutare caso per caso e sopratutto stabilire un rapporto di fiducia con la donna a cui va garantita protezione dalle minacce, anche a quelle verso la famiglia così che si senta sicura nel denunciare. (anche perchè se in una denuncia ci sono bugie e contraddizioni puoi star sicura che nella fase processuale, gli avvocati degli imputati ci si attaccheranno come mosche sul miele, quindi è anche per evitare questo che gli inquirenti vogliono denunce precise)
RispondiEliminaSulla tratta non ho nulla da aggiungere a quanto hai scritto, e sul tema più generale della prostituzione sai già cosa penso.
Penso però che sia necessario che sia la donna a voler lasciare il marito maltrattante o comunque cercare aiuto in una maniera o nell'altra, questo perchè anche se ci piacerebbe (e lo capisco) non possiamo prenderla,"impacchettarla" e allontanarla dal marito violento se lei non vuole. Mi rendo conto che non è per niente facile (per via delle luci e ombre di cui parlavi, la complessità) però mi chiedo, se non è lei a voler fuggire da una situazione di ripetute botte e maltrattamenti (pur intervallate da "riconciliazioni", momenti "d'amore" eccetera), come si può fare?
In effetti il mio post è stato abbastanza "tagliato" a mettere in evidenza pochi aspetti,per necessità di non dilungarmi troppo, ma la questione della metolodologia dell'intervento è molto,molto complessa. Sulla tratta non è purtroppo possibile garantire la sicurezza delle famiglie, a meno che non si operi in modo mirabile col paese di origine della ragazza (ma non mi risulta capiti mai). Per le denunce certo che è necessario ricostruire un quadro coerente una volta che la donna decide di procedere, ma io mi riferivo sempre alla tratta e alla difficoltà oggettiva a ricordarsi particolari, aggravata dalla mancata conoscenza di luoghi e spesso della lingua, visto che si tratta di ragazze straniere. Ho in mano degli atti di un processo a una sfruttratrice nigeriana datimi da un sostituto procuratore della DDA e a quanto vedo hanno molto lavorato sulle intercettazioni in aggiunta ai dati desunti dalle denunce delle ragazze. E' chiaro che se c'è la volontà di indagare su un'organizzazione criminale transnazionale si trovano anche i modi.Sul fatto che dici di non prendere e portare via la donna maltrattata, sono d'accordissimo, certo, e spero sia emerso dal post. Si può soltanto lasciare una porta aperta, far sapere che si può contare su un appoggio. Certamente, ammesso che la donna decida di iniziare un percorso di uscita dalla sua situazione, è proprio la "competenza della vittima" che deve essere messa al centro e ascoltata. Ognuno sa qual è per se stesso la strada adatta per riprendere in mano la propria vita. L'operatrice usa le sue competenze per favorire l'emersione delle risorse interiori che possono venire solo da se stessi. Questo è almeno ciò che io, da non operatrice, posso dire. Altri potrebbero certamente risponderti molto meglio di me e con molta più competenza.
RispondiEliminaGrazie per la risposta e le tue ulteriori osservazioni e precisazioni molto preziose. Mi piace molto il discorso che fai sul fatto delle risorse interiori che possono venire solo da se stessi
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