domenica 24 febbraio 2013

Non c'è nessuna guerra femminista contro le sex workers



Inauguro una sezione opinioni nel mio blog dove pubblicherò traduzioni di articoli di attiviste femministe straniere, pubblicando un post apparso sul blog Feminist current di Meghan Murphy (nella foto, tratta dal suo blog) tradotto da Maria Rossi che ringrazio.
Le posizioni delle femministe di orientamento abolizionista, che non vedono favorevolmente, cioè, una depenalizzazione degli "imprenditori" dell'industria del sesso e proprietari dei bordelli, ma desiderano un progressivo superamento del ricorso stesso all'acquisto di sesso a pagamento sono spesso riportate male e semplificate. E' fin troppo facile liquidare il loro punto di vista con l'accusa di moralismo, accusa che peraltro è quella tipica che i capitalisti dell'industria del sesso usano non appena qualcuno osa muovere qualche critica o qualche dubbio che può ostacolare il loro marketing. Eppure si autodefiniscono abolizioniste anche molte donne e ragazze che sono state vittime di tratta o sono state sfruttate nell'industria del sesso e che, una volta fuoriuscite, si battono perché non si debba ripetere all'infinito su altre la violenza che loro stesse hanno vissuto. Accomunare l'abolizionismo femminista con le posizioni moraliste e fanatiche di certi esponenti religiosi o delle ipocrite politiche tipiche del "gendarme di Washington" che criminalizzano le persone prostitute e le vittime di tratta mentre lasciano che il business dei magnaccia prosperi (similmente fanno le ordinanze xenofobe e sul decoro urbano dei nostri sindaci sceriffi) trovo sia una operazione scorretta, qualunque sia la motivazione per cui si sceglie di far ciò e qualunque sia la propria legittima opinione in materia. 



Non c’è nessuna guerra femminista contro le sex workers
Meghan Murphy

Mi sento sempre più scoraggiata da ciò che sembra un fuoco di fila di articoli, scritti da persone che si dichiarano progressiste, che sostengono che le femministe sono il vero nemico delle sex workers. Sembrerebbe che alcune di coloro che si definiscono “attiviste per i diritti delle sex workers” siano determinate a creare rigide divisioni tra donne collocando le donne prostituite in una loro propria categoria e le femministe in una fantomatica guerra moralista contro il sesso.
Un fattore chiave è che molti giornalisti di sinistra o fraintendono o travisano l’approccio abolizionista descrivendolo come moralista, il che li porta a trarre conclusioni infondate basate su equivoci facilmente superabili attraverso una semplice conversazione.
Sono delusa dal fatto che il giornalismo, la sinistra e il movimento femminista siano arrivati a produrre un’ideologia manipolativa allo scopo di promuovere una causa controproducente, ma siamo a questo punto.
Vi sono un certo numero di esempi recenti di questa distorsione. Reason, una rivista libertaria on-line, ha recentemente pubblicato un articolo intitolato "The War on Sex Workers" (La guerra contro le sex workers). L'autrice, Melissa Gira Grant, critica la criminalizzazione delle donne prostituite negli USA - un giusto impegno: non c'è dubbio. Ma anziché contestare un sistema iniquo e oppressivo che offre alle donne emarginate poche opzioni di vita al di fuori dell'industria del sesso e poi le criminalizza perché fanno ciò per sopravvivere (fondamentalmente viene criminalizzata la povertà) e contrastare una cultura porno che presenta streapt tease e pornografia come professioni che accrescono il potere e l'autonomia delle donne, Grant accusa le femministe.
Ella scrive:

<<Non tutte le persone che svolgono un lavoro sessuale sono donne, ma le donne soffrono in modo smisurato lo stigma, la discriminazione e la violenza contro le sex workers. Il risultato è una guerra contro le donne quasi impercettibile, a meno che facciate personalmente parte del mercato del sesso. Questa guerra è condotta e difesa in gran parte da altre donne: da una coalizione di femministe, da conservatori e anche da alcune/i attivisti dei diritti umani che assoggettano le sex workers alla povertà, alla violenza e all'incarcerazione - tutto ciò in nome della difesa dei diritti delle donne>>.

Questa "guerra contro le donne" non è impercettibile. Infatti, uno dei caratteri che rende questa "guerra" visibilissima, è il fatto che l'industria del sesso abbia una connotazione di genere. Le donne costituiscono la stragrande maggioranza delle prostitute (secondo le statistiche circa l'80%) e, oltre a ciò, le donne di colore sono  sovrarappresentate. A Vancouver, nel famigerato Downtown Eastside della British Columbia, soprannominato "il codice postale più povero", dove almeno 60 donnesono scomparse in circa 20 anni, il 70% delle prostitute sono donne delle PrimeNazioni (= autoctone). Considerando che il popolo delle Prime Nazioni costituisce circa il 2% della popolazione complessiva di Vancouver e il 10%  di quella di Downtown Eastside, questo numero è significativo.
Non c'è bisogno di appartenere al mercato del sesso per sapere che la prostituzione e la violenza contro le donne che si prostituiscono è il risultato di una combinazione molto efficace di razzismo, povertà e patriarcato.
Le femministe sono impegnate da decenni contro queste oppressioni che si intersecano e allora perché gli scrittori progressisti sono così riluttanti a riportare in modo preciso i dibattiti sulla prostituzione?
Jacobin, una rivista che viene accreditata come appartenente alla corrente principale del marxismo, si è occupata più volte del tema del lavoro sessuale. Apparentemente la linea favorevole al concetto di <<sesso come lavoro>> ha conquistato così tante pubblicazioni di sinistra, che le discussioni sulla questione rimuovono completamente la prospettiva abolizionista o semplicemente ne travisano gli argomenti.
Laura Augustin, per esempio, scrive: << Il turbamento morale che avvolge la prostituzione ed altre forme di sesso commerciale si fonda sull'asserzione che la differenza tra il sesso buono e virtuoso e il sesso cattivo e dannoso sia ovvia>>. Ella concepisce le concezioni dissenzienti come repressive e puritane - tipiche di persone che hanno limitato la loro accettazione del sesso al letto matrimoniale -, una concezione che è l'antitesi di decenni di lavoro femminista che ha decostruito le nozioni di romanticismo e di monogamia e ha collocato saldamente il sesso all'interno di un contesto politico.
Augustin confonde ulteriormente le cose, affermando che "non vi è nulla di intrinsecamente maschile nello scambio tra denaro e sesso", come se ciò fosse mai stato sostenuto. "Da chi?" ci si potrebbe chiedere. In effetti questo è ciò che le femministe hanno sostenuto per decenni: che non c'è nulla di "intrinseco" o di "naturale" nel fatto che gli uomini acquistino sesso dalle prostitute, ma si tratta piuttosto di un prodotto della nostra cultura fondata sulla diseguaglianza e sul potere maschile.
Ignorando le concezioni femministe sul lavoro sessuale e rimuovendo la connotazione di genere dell'industria [del sesso]; concentrandosi esclusivamente sul lato "lavoro" del lavoro sessuale, si rende un cattivo servizio alle donne e al movimento femminista, così come al lettore di sinistra che si ritrova completamente confuso e con una comprensione imprecisa della realtà del settore e del dibattito.
Un altro pezzo di Jacobin prosegue questo progressivo lavoro di lettura della questione della prostituzione attraverso la lente del "lavoro". In questo articolo: "The Problem With (Sex) Work", (" Il Problema con il lavoro sessuale") Peter Frase sostiene che "il problema nel caso del lavoro sessuale non è il sesso, è il lavoro".
Questo è un errore che commettono molti uomini socialisti quando tentano di affrontare l'argomento, in quanto assumono che applicare [ad esso] l'analisi del lavoro significhi necessariamente essere un esponente della sinistra. Mentre Frase osserva che ci sono problemi a concludere soddisfatti che il lavoro sessuale costituisca una fonte di autonomia e di espressione di sé, sorvolando sui suoi aspetti meno glamour, perché "non si possono trascurare gli aspetti coercitivi e violenti del sesso", egli glissa sulla posizione abolizionista (cioè delle femministe che vogliono impegnarsi perché la prostituzione abbia fine) come se fosse irrilevante. Con questo sforzo di fare della prostituzione un lavoro come un altro (forse pessimo) (come scrive Frase: "è un lavoro, e il lavoro è spesso terribile"), la sinistra abbandona le donne  ai capricci degli uomini e del mercato, mentre voi pensate che noi [della sinistra] desideriamo un mondo più equo che vorrebbe superare la situazione attuale.
Grant ha pubblicato anche un pezzo in Jacobin in cui esprime la sua frustrazione nei confronti di coloro "che hanno la vocazione a salvare le donne da se stesse e a farne le proprie beniamine" "che sono così fissati con l'idea che quasi nessuno avrebbe scelto di vendere sesso da perdere di vista le monotone e quotidiane scelte che tutti i lavoratori compiono per guadagnarsi da vivere". Ma  questo argomento trascura il fatto che la scelta avviene entro un raggio di azione e in un contesto di diseguaglianza e che l'industria del sesso fa parte di un più ampio sistema che sessualizza l'oppressione delle donne.
L'argomento  secondo cui  le femministe stanno cercando di "salvare le donne da se stesse" è pericoloso, perché può essere facilmente applicato, per esempio, all'attivismo femminista relativo agli abusi domestici (e se lei vuole stare con il marito violento?) e può essere esteso ad una troppo zelante difesa della 'scelta' individuale delle donne di oggettivare se stesse. Vogliamo in modo così intenso che non siano vittime da cercare di tramutare l'oppressione in autodeterminazione.
Malintesi sulle concezioni femministe relative alla prostituzione sono esplicitamente alimentati da articoli come quello di Grant, ma vengono ulteriormente consolidati quando altri scrittori non risultano disposti a rappresentare correttamente le posizioni.
La rivista Fuse ha pubblicatoun articolo di Robyn Maynard, nel numero intitolato Abolition, nel quale ella critica quello che definisce il "femminismo carcerario". Cita il caso Bedford, in cui le leggi canadesi sulla prostituzione sono state denunciate come incostituzionali, come un esempio di opposizione, guidata dalle sex workers, al 'proibizionismo', come erroneamente lo definisce.
Maynard sostiene che questo caso sia stato sollevato da donne emarginate. Così facendo, rimuove il fatto che i gruppi di donne delle Prime Nazioni dell'intero Canada supportano il movimento abolizionista ed hanno più volte affermato che la prostituzione delle donne indigene è  la diretta conseguenza della colonizzazione.
La Native Women's Association of Canada (NWAC) ha recentemente approvatouna risoluzione che sostiene l'abolizione della prostituzione, affermando che: "la prostituzione sfrutta ed accresce la diseguaglianza delle donne e delle ragazze aborigene basata sul genere, sulla razza, sull'età, sulla disabilità e sulla povertà".
La Native Women's Association of Canada prosegue affermando:

Le donne aborigene sono fortemente sovrarappresentate nella prostituzione e tra le donne che sono state uccise nell'ambito della prostituzione. Non è di alcun aiuto dividere le donne che si prostituiscono tra quelle che hanno "scelto" e quelle che sono state "costrette" a prostituirsi. Nella maggior parte dei casi, le donne aborigene sono reclutate nella prostituzione da ragazze e /o sentono di non avere altra scelta a causa della povertà e degli abusi subiti. E' l'industria del sesso che incoraggia le donne a vedere la prostituzione come un'identità scelta.

Un'altra organizzazione: Indigenous Women Against the Sex Industry (IWASI) (Donne Indigene contro l'industria del sesso) afferma che esse riconoscono l'industria del sesso "come una continua fonte di colonialismo e di danno per le donne indigene e per le ragazze di tutto il mondo" e si pronuncia contro "la totale depenalizzazione, legalizzazione o normalizzazione dell'industria del sesso".
Nel suo articolo, Maynard ignora volutamente il fatto che il caso Bedford non è, in realtà una causa promossa da sex workers, bensì  una causa intentata da un uomo bianco, Alan Young, il cui interesse a vincerla non è quello di depenalizzare la prostituzione di strada, bensì quello di legalizzare i bordelli. Con la consapevolezza che le donne più emarginate tendono ad essere quelle che praticano la prostituzione di strada e che a queste donne non sarebbe probabilmente offerto il "privilegio" di lavorare all'interno di un qualsiasi bordello legale, l'argomento secondo cui, in qualche modo, questa causa costituisce una battaglia a favore dei diritti delle donne emarginate è semplicemente falso. Vale la pena notare che la legalizzazione dei bordelli in luoghi come Amsterdam si è rivelata un completo disastro e ha prodotto solo un incremento della tratta e del crimine organizzato.
Per qualche ragione, anche alcune femministe hanno iniziato a partecipare all'elaborazione di queste rappresentazioni errate.
Laurie Penny, la cui analisi progressista e femminista è generalmente accurata, sembra aver perso la bussola quando ha scritto sul New Statesman che le femministe che erano critiche nei confronti dell'industria del sesso erano semplicemente contrarie al sesso, opponendosi alla prostituzione e alla tratta per ragioni morali:

Questo accade perché il sesso fa parte di quelle attività che causano un autentico orrore morale nei gelidi corridoi dei borghesi.

In realtà, le abolizioniste si battono contro la prostituzione sulla base di un'analisi che combina classe, razza e genere, oltre che, naturalmente, sulla base della difesa dei diritti umani delle donne. Questo non ha nulla a che vedere col fatto che il sesso piaccia o non piaccia. Che delle femministe stiano appropriandosi e stiano perpetuando uno stereotipo antifemminista inventato da uomini sessisti - che le femministe hanno solo bisogno di una bella scopata o che odiano tutti gli uomini/il sesso/ il divertimento - mostra la potenza del contrattacco. Ora noi ci stiamo facendo la guerra. Stiamo appropriandoci di quel che il patriarcato ci sta vendendo.
Penny scrive: "In realtà, il lavoro sessuale non è stigmatizzato perché pericoloso. Il lavoro sessuale è pericoloso perché è stigmatizzato". Ma si sbaglia. Il lavoro sessuale è pericoloso a causa di coloro che commettono atti di violenza contro le prostitute - cioè, gli uomini.
La chiave del successo del movimento femminista sta nell'aver attribuito un nome al colpevole. Andrea Dworkin è stata una delle prime a far questo; a dire che il problema sono gli uomini. Così ha creato una fondazione per offrire un supporto legale contro gli abusi domestici, per lottare contro le molestie verbali, le aggressioni sessuali e la colpevolizzazione delle vittime. Non fingiamo di non sapere chi molesta sessualmente le donne o  chi, in genere, le stupra. Noi  sappiamo fare di meglio che incolpare le donne per le aggressioni che subiscono- indipendentemente dagli abiti che indossano o da quanto abbiano flirtato o bevuto. Perché ci mette così a disagio attribuire un nome alla reale causa della violenza quando si tratta di prostituzione? Perché stiamo incolpando le donne?
L'obiettivo del femminismo è di porre fine al patriarcato. L'obiettivo del socialismo è di creare un'alternativa egalitaria al capitalismo. La prostituzione è un prodotto del patriarcato e del capitalismo. Avendo questo in mente, le abolizioniste hanno patrocinato un modello fondato sulla vera equità. A volte descritto come "approccio svedese" o come "modello Nordico", la Svezia, la Norvegia e la Finlandia hanno tutte adottato versioni di questo approccio femminista alla prostituzione che depenalizza le prostitute e criminalizza coloro che commettono violenza: gli sfruttatori e i clienti. Il modello combina i servizi di uscita dalla prostituzione con un sistema di welfare già forte e con programmi di formazione per la polizia che insegnano che le donne prostituite non sono criminali. Non si tratta semplicemente di un mutamento della legislazione, si tratta di una visione politica che persegue l'obiettivo della uguaglianza economica e di genere. Come avvocata femminista Janine Benedet mi ha detto: " è responsabilità dello Stato offrire qualcosa di meglio e non usare la prostituzione come una rete di sicurezza sociale".
E' stato recentemente pubblicato in lingua inglese uno studio norvegese che esamina i tassi di violenza contro le donne prostituite nel modello nordico. Il rapporto ha dimostrato che, dal 2008, gli stupri ed altre forme di violenza fisica contro le donne prostituite sono diminuite.
La triste verità è che, se l'acquisto di sesso è legale, la polizia probabilmente non  perseguirà i clienti che stuprano e abusano delle prostitute, senza il loro consenso. Lo sappiamo. Sappiamo che la polizia ha ignorato per anni le violenze contro le donne prostituite, specialmente contro quelle che sono povere e di colore. Sappiamo che il sistema della giustizia penale accusa spesso la vittima, in particolare se i giudici possono dire: "Beh, lui l'ha pagata!". La via più praticabile per combattere questa violenza consiste nel  depenalizzare le donne prostituite, criminalizzare i clienti e formare la polizia. Se gli sfruttatori della prostituzione e i clienti vengono criminalizzati, le sex workers saranno almeno in grado di andare dalla polizia se sono stuprate o aggredite e la polizia sarà in grado di agire rapidamente.
Sappiamo che non sono le femministe che stanno perpetrando violenza contro le sex workers. Sappiamo anche che le femministe non colpevolizzano la vittima, il che significa che questo non è un dibattito sulla moralità delle donne di questo settore. Perché i progressisti, nascondendo l'autore [delle violenze],  attribuiscono la colpa alle femministe e travisano il significato del movimento abolizionista?
Le femministe non sono il nemico. Piuttosto, sono gli uomini che trattano le donne come oggetti usa e getta che sono da biasimare. E', al contempo, sterile e disonesto  affermare che le femministe promuovono la criminalizzazione delle donne prostituite, quando una delle poche cose che le femministe e gli altri che propugnano la fine della violenza contro le prostitute possono condividere è che il nodo cruciale consiste nel depenalizzare le donne prostituite.
Le donne che io chiamo mie amiche ed alleate sono donne che hanno lavorato nell'industria del sesso, sono donne che lavorano instancabilmente in rifugi [per prostitute], compiendo un lavoro di sensibilizzazione, o che vi lavorano come avvocate, come accademiche e come attiviste. Le donne che ammiro e da cui ho imparato - donne che hanno plasmato il movimento - donne come Robin Morgan, Gloria Steinem e Andrea Dworkin - sono state collocate sull'altra linea di una sorta di guerra contro le donne.
Queste donne meritano di più di etichette imprecise e prive di significato come "anti-sex" o "proibizionista". Queste femministe non hanno accusato le donne prostituite, sono donne che vogliono che gli abusi, gli stupri, i pestaggi e gli omicidi abbiano fine. Credo che anche quelli che si definiscono "difensori dei diritti delle sex workers" o "alleati delle sex workers" vogliano questo. Non ho alcun interesse a creare divisioni inutili o sleali.
Questo è un movimento, non una guerra.




 

venerdì 22 febbraio 2013

E' più facile dire che le vittime non esistono

Isoke è una donna coraggiosa, intelligente e bellissima, e porta su di sé la forza di quello che ha fatto, non soltanto la denuncia, ma anche il racconto del potere criminale che lei stessa ha subito e che continua a combattere. [...] Le immigrate e gli immigrati arrivano qui non soltanto a fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma anche a difendere i diritti che gli italiani non vogliono più difendere. [parole pronunciate da Roberto Saviano a Torino nel 2010 ricevendo un premio dalle mani di Isoke Aikpitanyi per il suo impegno contro le mafie].

Ringrazio Isoke dal profondo del mio cuore perché sento che resiste e lotta anche per me, che non sono nigeriana..
Dopo essersi ribellata ai trafficanti anni fa e quasi uccisa per questo, è diventata poi protagonista di un progetto unico in Europa, La ragazza di Benin City, che l'ha portata poi a fondare l'Associazione vittime ed ex vittime di tratta, che porta avanti tra innumerevoli difficoltà e pericoli concreti, in cui le ex vittime diventano protagoniste della liberazione di altre "sorelle", con un mutuo aiuto tra pari. Ho avuto già modo di descrivere l'attività di questa associazione nel recensire il suo ultimo libro 500 storie vere.
L'organizzazione criminale che gestisce la tratta delle nigeriane per sfruttarle nella prostituzione nel nostro e in altri paesi europei è - come altre organizzazioni di questo tipo -  quella che si dice una delle nuove mafie che operano su base transnazionale. Come tutte le mafie è caratterizzata nel suo operare dalla forza di intimidazione del vincolo associativo al fine di ottenere l'assoggettamento delle sue vittime, a scopo di sfruttamento. Nelle organizzazioni mafiose valgono i codici del più estremo machismo, come dice Lydia Cacho, secondo cui le donne valgono solo in quanto oggetti di piacere. Si tratta di un business che produce fiumi di denaro macchiato di sangue, un business che si svolge col coinvolgimento di figure che sono molto in alto in Nigeria, ma anche con tante complicità nei tanti paesi europei in cui l'organizzazione è ramificata (oltre all'Italia, Spagna, Olanda, Irlanda, Regno Unito, Francia, Germania, ecc..) nella più totale indifferenza e disinformazione della cittadinanza, di cui sessismo e xenofobia sono ingredienti fondamentali.
E' con gratitudine che pubblico questa preziosa intervista fatta a Isoke Aikpitanyi da Ilaria Maccaroni il 15 febbraio scorso (pubblicata contemporaneamente anche da Un Altro genere di comunicazione, Femminile plurale e Maschile plurale).
L’intervista è già stata trasmessa il 19 febbraio scorso all’interno della rubrica culturale "ControEssenze" a cura di Connettive, durante la trasmissione del Martedì Autogestito da Femministe e Lesbiche di Radio Onda Rossa:


É noto che le donne provenienti da altri paesi vengono tratte con l’inganno da false agenzie di viaggi o agenzie per l’impiego locali che promettono loro di farle lavorare in Europa, le fanno entrare in un paese europeo e le obbligano a prostituirsi. Le ragazze in Nigeria, oggi, quanto sono coscienti del pericolo che corrono di cadere nella rete dei trafficanti?
Anzitutto bisogna tener conto di cosa è la Nigeria, dell’estensione del suo territorio, della consistenza della sua popolazione e del persistere di una realtà urbana e di una realtà periferica; la prima ha quasi tutte le caratteriste della modernità, è occidentalizzata, per così dire, mentre la seconda è ancora fortemente tradizionale, tribale.
Tanto per chiarire, nella seconda l'elettricità non c'è ancora tutto il giorno, si vive in modo atavico; ed è da qui che è più facile andare a prendere delle ragazze che non sono informate e non sono consapevoli di quel che le aspetta.
Poi ci sono le altre, quelle che cercano una vita migliore, ma vorrebbero avere a disposizione i mezzi economici che sono in mano a tanti ricchi. Il sogno impedisce loro di vedere che le aspetta un incubo: vanno a divertirsi nei night, “ballano sul cubo”, si divertono con gli avventori bianchi che fan vedere loro una verità che poi le ragazze non troveranno di certo. Ma tanto basta per  far pensare loro che se anche il rischio è quello di doversi prostituire, lo si farà per poco tempo: non sono consapevoli, poi, delle modalità alle quali dovranno adattarsi, non sanno minimamente cosa siano, ad esempio il freddo di tanti paesi del nord Europa...
Poi ci sono quelle che già a Lagos, per esempio, si sono avvicinate alla prostituzione e pensano che se debbano prostituirsi, meglio farlo con i bianchi e in Europa dove ci sono tanti soldi e c'è la possibilità di fare tanti soldi. Ma questa è una cosa degli ultimi anni mentre venti anni fa le ragazze non sapevano.
Oggi il 50% sa e non sa.
Ma il problema non è questo, è che nessuna sceglie liberamente e davvero consapevolmente, ed è che tutte arrivano con un debito da pagare e che questa è la catena della quale nessuna sa liberarsi, né praticamente, né psicologicamente: e questa è una condizione di schiavitù.
Chiedersi se sanno o non sanno è sbagliato, è come insinuare che se scelgono liberamente non ci si deve porre il problema della loro schiavitù.


Esistono organizzazioni o autorità statali in Nigeria impegnate a diffondere notizie e informazioni sulla tratta delle donne nei paesi occidentali?
C'è una agenzia governativa che si chiama NAPTIP e che fa esattamente questo lavoro. Solo che se una agenzia di questo tipo operasse in Europa, potrebbe farlo con strumenti incisivi e con una certa possibilità di successo, in Nigeria tutti pensano che l'Europa è il loro sogno, quindi andare in Europa sarebbe la realizzazione del sogno, quindi essere portate in Europa è una gran bella cosa.
La gente e le giovani in particolare, considerano che avere una opportunità per venire in Europa sia il solo strumento per realizzare quel sogno, per cui chi cerca di far arrivare a loro notizie sui rischi che corrono non è creduto.
La pressione demografica e le difficoltà economiche di una popolazione vive con meno di un euro al giorno, in un paese ricchissimo di petrolio e nel quale una ristretta “borghesia” è ricca, fanno il resto.

Quali altre strade può intraprendere una donna nigeriana che desidera emigrare in Europa, senza rischiare di cadere vittima della tratta?
Nessuna; qui non siamo di fronte ad una emigrazione normale; a emigrare non sono persone che hanno risorse personali e familiari, preparazione intellettuale e culturale per andare a ricoprire posti anche importanti nel lavoro e nelle professioni: emigrano persone disperate, spesso analfabete che “normalmente” non avrebbero nessuna possibilità di venire in Europa.

Una volta arrivate in Italia le ragazze contraggono a loro insaputa, un debito quasi impagabile coi trafficanti o con le maman che le sottraggono i documenti e diventano le loro padrone. Che cosa dicono le maman alle ragazze per spingerle a lavorare per loro?
Anche qui quel che un tempo le maman dicevano è diverso da quel che dicono oggi. Un tempo spingevano brutalmente la ragazze in strada, insegnavano loro quel che dovevano fare e lo facevano o con le buone o con le cattive (cioè facendole violentare dai loro scagnozzi).        
Così facendo, però, si sono accorte che molte ragazze si ribellavano e cercavano vie di uscita. Così hanno cambiato tattica e hanno cominciato a lasciare alle ragazze parte dei loro guadagni: le hanno istruite a gestirsi le relazioni con i clienti in modo da ingannarli e da spillare loro più quattrini. Insomma le maman hanno svolto il compito di una vera e propria scuola di prostituzione e da alcuni anni offrono alle ragazze alcuni servizi aggiuntivi:      maman e trafficanti sono i più abili fruitori delle modalità di legalizzazione della presenza delle ragazze; spiegano loro come e chi denunciare, seguendo le opportunità dell'articolo 18; danno loro i legali italiani che le aiutano nelle pratiche delle sanatorie; le spingono a  diventare richiedenti asilo: quindi, almeno apparentemente, per le ragazze la maman è solo una che gestisce la loro opportunità di restare in Europa. Solo quelle che si ribellano davvero corrono dei rischi, per le altre basta prostituirsi senza far storie e pagare il debito.

Cosa spinge una donna trafficata a ribellarsi ai trafficanti, a scappare e a chiedere aiuto?
Anzitutto non avendo scelto quella vita tutte si guardano intorno e cercano una via di uscita. Purtroppo la ricerca non dà buoni frutti; nove su dieci sono respinte dai servizi i quali sono fortemente vincolati dal fatto che, almeno per le nigeriane, senza denuncia non c'è nessuna possibilità di regolarizzarsi.
Ma quanto dura il tempo della ribellione e della ricerca di una via di uscita, prima che subentri la rassegnazione e la ragazza si adatti alla prostituzione? Per alcune molto a lungo, per altre poco, a seconda anche delle esperienze che fanno sulla strada, del tipo di clienti che incontrano...
Dopo a ribellarsi sarà una ragazza stanca di quella vita, ma sfiancata nelle sue capacità di mettere in gioco le sue potenzialità, la capacità di mettersi a studiare, di imparare un lavoro vero. Dopo due o tre anni, o di più, di strada, la persona ha perso molte delle proprie risorse personali: lo sforzo necessario ad integrarsi e gli ostacoli che trova sono troppo grandi; è più    facile restare nella prostituzione.

Che ruolo hanno le famiglie di origine delle ragazze rimaste in patria nel far sì che queste non si ribellino e continuino a lavorare nella prostituzione per inviare i soldi a casa?
Anche le famiglie sanno e non sanno che cosa fa la loro figlia. A questo punto bisogna ammettere che è come se avessero deciso di sacrificarla per il benessere degli altri componenti la famiglia stessa. Comunque sia le famiglie sono minacciate e diventano oggetto di violenze se le ragazze si ribellano e non pagano; per questo le famiglie spingono le ragazze a essere obbedienti alle maman e a non ribellarsi. E lo fanno sia che ricevano davvero minacce e corrano davvero pericoli, sia che - invece – siano complici dei trafficanti e siano consapevoli del destino della loro figlia.

Nel tuo primo libro racconti di come un uomo italiano, conoscente della maman che ti sfruttava, voleva farti lavorare in un night club ma tu scappasti perché ti dissero che lavorare lì era peggio della strada. La prostituzione nei night sta prendendo piede in Italia? Le ragazze che lavorano nei night sono trattate meglio o peggio di come lo sono sulla strada?
Le ragazze sono sfruttate e basta; non è detto che siano sfruttate in un posto o in un altro, in un modo o nell'altro, sono sfruttate come serve agli sfruttatori: la strada è il luogo più facile e immediato soprattutto per una massa di ragazze. E poi i clienti non sono tutti frequentatori di night e locali, per andare nei quali bisogna già avere una abitudine alla vita notturna, alla ricerca di prostitute; per molti clienti la strada è il luogo più neutro e rapido che consente loro di non coinvolgersi, almeno così credono inizialmente, di non perdere troppo tempo, di spendere meno.
Il night e la casa chiusa, però, sono situazioni nelle quali la ragazza è più controllata è può sfuggire meno al controllo dei trafficanti; i luoghi chiusi, inoltre, sono i più pericolosi per una ragazza che voglia ribellarsi; e sono quelli nei quali le opportunità di trovare una via di uscita sono minori. I clienti del night o del luogo chiuso sono meno sensibili ai drammi delle ragazze e nessun operatore sociale va al night, mentre in strada ci va e semina la sua proposta di aiuto.

Negli ultimi anni il fenomeno della schiavitù sessuale ha preso piede in quasi tutti i paesi del mondo, e in misura maggiore in quelli occidentali, nei quali donne di altri paesi vengono fatte entrare e obbligate a prostituirsi. Il fronte abolizionista femminista che riunisce coloro che in un modo o nell’altro combattono la tratta e vorrebbero sradicare la cultura della prostituzione dalla società, ritiene che la divisione tra vittime della tratta e “libere” professioniste non sia possibile fintanto che la prostituzione continua a essere regolamentata dallo stato. Tu credi che possa esistere una netta separazione tra tratta e prostituzione volontaria?
Questo non avviene negli ultimi anni. Lo sfruttamento della donna in senso generale è il principio che genera, determina, rende possibile la riduzione in schiavitù (ad esempio anche quella domestica e familiare) e ha tra le sue conseguenze anche la prostituzione.
La domanda, però, forse contiene un errore perché la prostituzione oggi NON è regolamentata dallo stato, mentre la domanda formula l'ipotesi che lo sia.
Ma l'errore della domanda è nell'ipotesi stessa che possa esistere una prostituzione libera. I problemi delle vittime della tratta riguardano ragazze che sono schiavizzate e sfruttate; io dico sempre che le loro catene non sono per forza visibili e la loro condizione umana è talmente degradata dal finire coll'accettare la prostituzione come inevitabile. Ma questa non è una libera scelta. Non mi chiedo quali siano i problemi delle donne libere, li lascio ad altri.

Quali effetti avrebbero, secondo te, un’eventuale “regolamentazione” o normalizzazione o tutela della prostituzione sulle vittime della schiavitù sessuale?
Sarebbero effetti devastanti; dimostrerebbero che hanno ragione la maman che dicono loro che la prostituzione è un lavoro e che tutti i lavori comportano rischi. In pratica una ragazza dovrebbe prendere atto che non ha senso ribellarsi e che se ci si adatta tutto va meglio o va bene. Meglio e bene per chi?
Questa è una devastazione vera e propria, non è una questione di moralità o immoralità; su questo piano io non critico, non condanno, non giudico nessuna ragazza che si prostituisce. Non lo farei mai perché so il dramma di molte, so che molte finiscono lì: ma so che se si vuole che finiscano per forza lì e si fa addirittura una legge che le regolarizza in quanto prostitute invece che in quanto vittime della tratta, vuol dire che avremo comunque donne che non saranno illegali, clandestine e perseguibili perché saranno in qualche modo in regola con le norme burocratiche della immigrazione e del lavoro, ma queste saranno sempre schiave, cioè legate allo stesso meccanismo del debito e dello sfruttamento e alla reiterazione della schiavitù ai danni di ragazze sempre nuove che continueranno ad arrivare.

Affermare che “prostituirsi è un lavoro” e che è “una strada per guadagnare bene in poco tempo”, può danneggiare le vittime della tratta?
Assolutamente SI

In Svezia, la legislazione prevede che lo stato criminalizzi il cliente e tuteli la vittima della prostituzione. Secondo diversi studi, così facendo, la prostituzione in Svezia è calata di molto. Ritieni che questo modello possa essere efficace per combattere la tratta e la prostituzione nel nostro paese?
Non è vero che i clienti sono diminuiti, si orientano gli studi esattamente come si fa in Italia per dire che si fa molto contro la tratta: il numero delle vittime è stimato non in base alla realtà, ma in base ai risultati dei servizi antitratta: i numeri dei servizi dicono che più di 10 mila sono state aiutate in 10 anni? Bene, alloro si stima che le ragazze sono 12/15 mila, quindi tutte hanno avuto una opportunità di liberazione e moltissime l'hanno colta. Se, però quelle ragazze fossero stimate in numero maggiore, quei risultati non sarebbero positivi. Il problema della Svezia è non riuscire a capacitarsi del perché il problema sussista anche se esiste una realtà di liberazione sessuale diffusissima.
Il mio libro è stato tradotto in finlandese... chissà perché in quei paesi c'è la necessità di capire il problema.
La questione, allora, è rovesciare una verità presunta: il problema non sono i clienti e le prostitute libere. Il problema sono le schiave.

Secondo te perché i clienti comprano le donne per soddisfare i loro desideri sessuali e poi (alcuni di loro) decidono di aiutarle a fuggire dalla prostituzione? Non pensi che sia un comportamento contraddittorio e illogico? I clienti sanno che le donne sulle strade sono in realtà donne trafficate? E se sì, perché decidono di comprarle lo stesso?
E chi lo dice che lo sanno? Gli stessi che affermano che le prostitute sono quasi tutte libere? Ma se sono libere sono liberi anche i clienti.
In realtà, invece, è ancora necessaria una opera si sensibilizzazione, informazione, prevenzione rivolte al mondo maschile perché il maschio cerca tutte le scuse che spieghino e giustifichino il suo esser cliente.
Solo l'esperienza diretta porta il maschio a prender atto che quelle ragazze NON sono libere e a quel punto spesso decide di non esser complice, ma risorsa contro la tratta; ma deve affrontare un difficile percorso di consapevolezza nel quale nessuno lo accompagna o lo sostiene: si trova così ad esser criminalizzato moralmente, rischia multe e pene per un comportamento che è favorito parimenti da trafficanti e leggi.

Cosa proponete tu e la vostra associazione allo stato e alla società per contrastare e combattere la schiavitù sessuale delle donne straniere, sia a livello legislativo che educativo e sociale?
Il fenomeno dello sfruttamento delle nigeriane, e delle altre, è intenso da almeno 20 anni. Noi vittime ed ex vittime della tratta non chiediamo nulla perché lo Stato ci risponderebbe che da 20 anni finanzia il nostro sostegno e che le nostre richieste e proposte NON valgono o, meglio, valgono poco perché altri sono più qualificati di noi per formularle sulla base di conoscenze giuridiche, sociologiche, psicologiche, ecc. ecc.
Da molto fastidio allo stato che una organizzazione di vittime ed ex vittime, l'unica esistente in Italia e in Europa, parli; siamo le beneficiarie dei servizi e degli interventi che lo stato e le istituzioni ai vali livelli e in vario modo hanno posto in essere e diciamo come beneficiare, che NON funziona, che nove su dieci di noi non beneficiano di nulla, che nove su dieci diventano prostitute per colpa della inefficienza dei servizi dello stato e che non si sa ipotizzare altro che regolamentare la prostituzione, cioè fissare regole e modalità per regolarizzare il nostro sfruttamento.
Noi non possiamo dire bisogna fare in un altro modo, perché nel frattempo altri contestano le nostre proposte e difendono le loro.
Noi facciamo a modo nostro, allora: facciamo auto - mutuo aiuto, cerchiamo di farci sentire e dire la nostra verità, anche se è difficile perché ci mancano gli strumenti culturali per elaborare il pensiero e ci manca la malizia politica per proporlo ai tavoli dove le decisioni sono prese sulle nostre spalle. Per fortuna che MOLTI servizi sono validissimi, quindi non stiamo criticando tutti e chiunque; ma nell'insieme la realtà è questa. A noi è preclusa perfino la possibilità di aiutare noi stesse.
Insieme ad altre e a parti importanti della società civile, noi facciamo accoglienza, motiviamo, sosteniamo, accompagniamo ragazze nella ricerca di una via di uscita, “anche” attraverso i servizi, ma anche dopo, senza mai dimenticare che siamo sole quando i servizi hanno completato il loro intervento e ci considerano autonome, mentre noi siamo ancora in balia dei trafficanti, del debito, dei falsi pastori complici delle maman, delle comunità nigeriane complici, ecc. ecc.
Siamo sole contro la mafia nigeriana, una delle peggiori al mondo.

Quanto è importante dar voce alle sopravvissute della tratta e della prostituzione e perché la loro voce tende a essere meno ascoltata rispetto a quella di tante altre?
Per assurdo ha voce il Comitato per i diritti delle prostitute, non l'associazione vittime ed ex vittime della tratta: è così che si costruiscono una cultura ed una politica che a noi non possono offrire nulla.
Il problema non è il Comitato delle prostitute che fa quello per cui è nato; il problema è che il sistema, tra squilibri politici, sociali, morali, ecc. ecc. è miope. Il problema sono le donne alle quali sembra più facile ascoltare le prostitute delle vittime della tratta, perché la libera scelta è legittima, mentre esser vittime significa vittimizzarsi e, quindi, screditare moralmente le prostitute a vantaggio di quelle costrette a prostituirsi. Più facile sostenere che le vittime non esistono e tutte sono solo prostitute e basta, in modi e luoghi diversi.
Per noi non è così, ma ci è difficile dover sostenere una posizione come questa nostra che sembra ideologica, contrapposta alla ideologia di altri, mentre è la nostra vita reale ad essere in gioco. Per troppi sarebbe meglio se noi non ponessimo proprio il problema e per spingerci a questo non ci ascoltano: per noi è già cos' difficile anche solo parlare...