mercoledì 19 dicembre 2012

Una legittima necessità (testimonianze - 6)


[Link all'originale: http://secretdiaryofadublincallgirl.wordpress.com/2012/08/19/a-legitimate-need/
Traduzione di Gabriele Lenzi che ringrazio]

C'era questa faccenda di Annawas14 su twitter l'altro giorno e stavo facendo il mio accesso settimanale/mensile per curiosare su twitter quello stesso giorno. Non sapevo di questa faccenda, ma sono finita a guardare alcune delle cose dette.
 
Oh rete. Ti amo e ti odio nella stessa misura.

Una cosa che qualcuno aveva detto mi ha davvero irritata. Era qualcosa più o meno come: "Criminalizzare una legittima necessità nella comunità non è un beneficio per nessuno." O qualcosa con questo significato. Una formula accattivante, devo dirlo.

Mi ha veramente, profondamente irritata.

Gli orgasmi non sono una legittima necessità. Mi è già capitato di fare questa puntualizzazione. Gli orgasmi sono il motivo per cui gli uomini incontrano le escort. Non ci vanno per la personalità attraente della prostituta o per la conversazione accattivante che può nascere o per l'atmosfera dell'ambiente in cui lei li accoglie. Ci vanno per fare sesso. Possono anche, incidentalmente, essere tristi, soli, patetici, qualsiasi cosa, ma ci vanno per fare sesso. Fine della storia. Possiamo per favore almeno superare questo punto, prima di tutto. Il sesso è il motivo per cui esiste la prostituzione. La prostituzione vende sesso. Gli uomini vogliono sesso.

Chiarito questo, sto presumendo che questa persona deve pensare che il sesso in sé sia una "legittima necessità".

No.

Il sesso non è una necessità. Non è un diritto umano. Il cibo è una necessità. L'acqua è una necessità. Se non ci procuriamo cibo o acqua moriamo. Se non ci procuriamo sesso moriamo. Ah no aspettate, non è che moriamo, semplicemente si è frustrati. Poi ci si abitua. E se il sesso è una "legittima" necessità, che cos'è una "illegittima" necessità mi chiedo? E perché questa "necessità" è solo per gli uomini? Senz'altro se il sesso è una "necessità" allora anche le donne devono necessitarlo regolarmente, per non consumarsi, così come sembra che capiti agli uomini. Eppure in qualche modo il mercato di prostituti non sta esattamente decollando. Gli uomini non vengono recensiti. La misura e la forma del cazzo degli uomini non viene discussa. Questa è divertente. Voglio dire: se il sesso è una necessità, perché queste cose non succedono?

Non ho fatto sesso per un lungo, lungo periodo, e molto tranquillamente sto bene. Ho un desiderio sessuale assurdo ma in qualche modo, in qualche modo, tiro avanti. Ho delle amicizie - sia maschi che femmine - che non hanno fatto sesso per anni. Siamo ancora vivi. Nessuna di queste persone si è consumata. Nessuna ha attraversato una furia omicida o stupratrice o ha intrapreso comportamenti depravati. Tutti i nostri organi sessuali sono ancora lì. Niente è marcito o si è staccato o ha chiuso bottega.

Ho anche sentito di gente che quando non può far sesso fa qualcosa. Com'è che si dice… desiderano avere un orgasmo ma non hanno partner o trombamici o cosaltro.

Ah sì. Si masturbano.

Si procurano un orgasmo da sé. Lo so. Geniale. La gente lo fa ogni volta che si rende conto che la loro "necessità", il "diritto umano" all'orgasmo non è soddisfatto. Pretendere che i bordelli siano un'ottima cosa perché provvedono alla "necessità" degli uomini (un orgasmo. Stiamo parlando di un orgasmo, forse due) è l'argomento più ridicolo che abbia mai sentito.

Ma chi ha scritto questo tweet non stava semplicemente dicendo che il sesso è una necessità, no. Stava dicendo che pagare per fare sesso sia in qualche modo una necessità. Neanche ho una risposta a questo. Fare sesso o averne bisogno è una cosa. Pagare per farlo è una cosa completamente diversa. E' un maledetto hobby. E' "divertirsi un po' " nella pausa pranzo prima di andare a casa dalle loro mogli.

Qualcuno sembra pensare che le prostitute salvino le "altre" donne dallo stupro. Trattenetemi. Immagino che queste persone credano anche che sia impossibile stuprare una prostituta. Che tipologia di donne ci sarà mai per "salvare" la prostituta dallo stupratore? Gli stupratori stuprano. Stuprano le nonne e le adolescenti e le prostitute e le proprie mogli. Stuprano le donne. Stupratori e uomini che sono sfortunati nel settore delle relazioni sessuali sono due cose parecchio diverse. Ma non entro in questo perché se lo faccio potrei davvero consumarmi alla fine.

E quale sarebbe questa "comunità" di cui parla? Una necessità legittima nella "comunità". Come una sorta di "centro sessuale" con finalità etiche. E' come se pensasse che il bordello di "Shameless" fosse una rappresentazione realistica della realtà. Dio mio. Riesco a pensare ad alcune "necessità legittime" in diverse comunità. Di cosa hanno bisogno le comunità? Integrazione, comunicazione, un senso di comunità, stato sociale, supporto sociale per i senzatetto e i tossicodipendenti, centri per la salute, centri sociali per bambini, polizia, sicurezza, facile accesso al sesso a pagamento…

Scherzo. Le comunità ovviamente non hanno bisogno di bordelli per svilupparsi. Che idea ridicola. Che idea offensiva. Si tratta di una parola accattivante per rendere la formula accattivante. Rimanda a gente che vive insieme e lavora insieme, si aiuta a vicenda, consiglia Alisha la polacca a un amico cliente perché lei è così amichevole e non richiede costi extra. E' questo il tipo di comunità a cui si sta riferendo? Perché non ho mai fatto parte di una comunità che "necessitasse" di un accomodante bordello locale.

Oibò.



domenica 25 novembre 2012

25 novembre

Oggi, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, pubblico le parole di una mia carissima amica e compagna di lotta, Ilaria B., che a caldo mi scrive le sue impressioni su un importante convegno che si è tenuto il 21 e 22 novembre a Milano, a cui avrei desiderato tanto essere presente: "Le parole non bastano", organizzato insieme dalla Casa delle donne maltrattate di Milano e Maschile plurale. Grazie, Ilaria.

Il convegno “Le parole non bastano” è stato, io credo, un evento di un peso e un’importanza che forse nemmeno ancora riesco completamente a immaginare, e che certamente si farà sentire, spero con effetti immediati e molto concreti. 
E non semplicemente perché è stato voluto e organizzato insieme da donne e uomini – certo anche, e non è una cosa da poco – ma soprattutto per le energie, le idee e in primo luogo l’esempio concreto di un nuovo tipo di relazione possibile tra uomini e donne. 
Perché se è vero che è con la relazione tra donne che si esce dalla violenza, come ha detto Marisa Guarneri, una relazione che è in primo luogo una “accoglienza come legame d’amore”, è anche vero che tanti e tante hanno affermato e messo allo stesso tempo in pratica, in due giorni di dibattito davvero appassionante, una relazione nuova, diversa, tra uomini e donne che è l’unica via possibile e praticabile per tentare di sradicare la violenza maschile contro le donne al suo punto di origine. E’ stato infatti ribadito da più parti, e a me pare che non lo si sottolinei mai abbastanza, che non è con la repressione – che, per carità, ci vuole ed è irrinunciabile – ma soprattutto con la prevenzione che occorre affrontare la violenza di genere. E, altra distinzione centrale, non è con interventi istituzionali ma con una collaborazione trasversale e a partire dal basso, dalla comunità, che possiamo sperare di venirne a capo.
Di un convegno che, giustamente, sottolineava il limite delle parole – in modo sottile, naturalmente, perché dialetticamente il potere della parola era continuamente evocato e agito – mi rimane una costellazione di termini e idee che non a caso continuavano a riemergere: emozioni, sentimenti amore, desiderio, relazione. La teoria di quello che è stato detto la conosciamo: è il racconto della difficoltà a fare emergere, a “dire” la violenza per poterla affrontare, curare, sanare, in chi la subisce, in primo luogo, ma non solo. La novità è che si è parlato, e con forza, della necessità di dire e dunque affrontare la violenza là dove nasce, e cioè in un immaginario condiviso sul quale dobbiamo lavorare, a partire, come luogo imprescindibile, dall’educazione, ma muovendoci anche in altri ambiti.
 Quello che è successo (sottolineo successo, e non semplicemente che è stato detto) è che è stato evocato e insieme praticato il tema del desiderio, dell’amore, della felicità. Era palpabile nella forma, sempre dialogica, di un confronto tra uomini e donne, in cui si sono articolati gli interventi. Ma non solo: era proprio la linfa che si sentiva scorrere, era nel pubblico, nelle pause, a pranzo. Una curiosità reciproca, un ascoltarsi attento e insieme entusiasta, dell’entusiasmo di una continua scoperta.
 So bene che si stanno tentando esperimenti di dialogo in più luoghi, in spazi più o meno virtuali, ma questo è stato, a mio parere, qualcosa di molto speciale. Forse perché il “partire da sé” è stato un collante fondamentale, al punto che, direi, nella costellazione delle idee e delle parole che circolavano e dominavano i discorsi, è stato l’idea più forte, la più sottolineata come l’ingrediente fondamentale di ogni risposta possibile praticabile alla violenza. Ne è nata una presentazione di esperienze che ha fatto nascere, a sua volta, nuove idee e proposte. Legate da un filo: la risposta non sta nelle istituzioni e non sta nella repressione. La risposta possibile è nella comunità, nell’attivare le sue risorse, nel cambiamento dell’immaginario, nel portare più persone a riconoscere la violenza e a rivolgersi ai centri antiviolenza. Il ruolo delle istituzioni non è ovviamente privo di importanza, ma è un ruolo che deve prendere le mosse e la direzione a partire dall’ascolto di chi contro la violenza lavora ogni giorno.
Sarebbe importante dare uno spazio a ciascuna delle voci che hanno declinato la relazione e le soluzioni in un intreccio di sfaccettature che dialogavano e si richiamavano. Per oggi deve bastare una parola: educazione. Lo ha detto l'assessore alle politiche sociali, lo ha detto un'antropologa che ha raccolto le voci delle donne che troppo spesso non trovano negli ospedali persone pronte a facilitare il racconto della verità (anche se, va detto, molte volte, per fortuna, le trovano), lo ha detto un magistrato, che ha spiegato che troppi magistrati, la polizia, gli avvocati (donne e uomini, va detto) sottopongono le donne a una ulteriore violenza, spesso scoraggiandole dal denunciare. La violenza per essere combattuta e fermata va in primo luogo riconosciuta e, ancor più fondamentale, detta. Le parole non bastano ma sono il primo strumento che abbiamo, possono essere molto potenti, possono servire a formulare la domanda giusta, alla quale deve seguire un ascolto educato a sentire e accogliere. E agire.

lunedì 12 novembre 2012

Facebook e la pedopornografia

Riporto la traduzione dallo spagnolo di un interessante articolo di Lydia Cacho che denuncia come gli stupratori di bambini agiscano praticamente indisturbati sul famoso social network. Ringrazio le ragazze di Un altro genere di comunicazione e S. per la traduzione. Il testo originale si può leggere qui.

Facebook e il porno - di Lydia Cacho

Fluttuano liberamente nel cyberspazio, sono i siti dei pedofili che, oltre ad abusare di migliaia di bambini e bambine, fanno uso delle loro pagine Facebook per mostrare il loro coraggio, narrando dettagli sulle loro azioni criminali.
"Guarda questa foto, l'ho presa quando aveva quatto anni, tenera e vergine" dice Roberto, che dalla Spagna fa mostra tra le sue fotografie di se stesso, mentre penetra bambine molto piccole. La pagina è stata denunciata a Facebook senza che nulla accadesse, la polizia spagnola non ha un reale potere nei confronti della Società, né ha la facoltà, dicono, di arrestare tutti quei soggetti che pubblicizzano i propri crimini nelle pagine le cui origini possono essere rintracciate con la più semplice tecnologia.
Per fare un'indagine qualche anno fa, mi sono unita ad un gruppo di uomini in rete, le cui conoscenze cibernetiche mi hanno insegnato a rintracciare i pedofili nel cyberspazio e a promuovere cause nei paesi dai quali emergono le immagini.
Un uomo scrive al lato di una foto con una bimba bionda "lei è una delle mie piccole lolite preferite, ora ha dieci anni, ma ha cominciato il sesso da quando ne aveva due".
Un altro risponde: "Oggi ne ha 17, ma ha cominciato a fare sesso a 4 anni ed è una vera cavalla ninfomane" . I soggetti si presentano come “Lolita lovers”, “Babyboylover”, “Il cacciatore di piccoline”, e altri soprannomi. In questi video e foto si vede chiaramente il viso delle vittime. Di tanto in tanto abbiamo denunciato alla polizia postale dei diversi paesi; si mandano i profili dei soggetti e gli indirizzi IP. 
Abbiamo persino localizzato un professore di Veracruz che su Facebook agganciava dei bambini e li manteneva in contatto attraverso il suo blog come professore di educazione fisica. La pornografia infantile è nella maggior parte dei caso una delle modalità del delitto di tratta di esseri umani.
È stato grazie ai cyber-attivisti degli Uomini contro la Prostituzione e la Tratta (Menapat, in inglese), Marcelino Madrigal, Richard Lepoutre e Raymond Bechard, che ho imparato a seguire i cyberpederasti, per poi indagare ed assicurarmi che la la polizia postale non solo faccia il lavoro di persecuzione del delitto (postare e far circolare immagini di pornografia minorile è punibile con la legge in molti paesi, incluso il Messico), ma anche che le indagini portino a rintracciare i posti dove si trovano queste bambine e questi bambini vittime degli abusi.
Un anno fa ho denunciato questo tema durante l'intervista che mi fece Michelle Bachellet durante la consegna di un premio a New York. Ho utilizzato l'assemblea per spiegare il mio lavoro ed esigere che FB rispondesse. Newsweek pubblicò i dati con le prove che avevo portato. Facebook provò a negare le mie affermazioni provando a spaventarmi attraverso i propri avvocati newyorchesi, a chiedermi di smettere di dialogare, e alla fine, a causa deii fatti e delle prove che ero riuscita a far pubblicare dalla rivista nordamericana, Facebook dichiarò che "stavano lavorando sul caso". 
Il mio profilo Facebook, attraverso cui indagavo su questi temi, venne chiuso con la motivazione di "cattivo uso della rete sociale".
E' importante sottolineare che iscriversi a Facebook è gratuito, ma la Società guadagna basandosi sulla sua quotazione in borsa grazie ai milioni di persone che utilizzano i suoi prodotti.
Una fonte interna a Facebook mi ha detto a Washington che non faranno mai quello che ho richiesto di fronte al Senato nordamericano in paesi che non hanno leggi sufficientemente severe per esigerlo. Gli Stati Uniti sono il paese con il maggior numero di utilizzatori di Facebook , seguito da Indonesia, Gran Bretagna, Turchia, India e Messico.
L'unico paese col quale l'azienda collabora nel mantenimento delle foto segnaletiche dei bambini scomparsi sono gli Stati Uniti. Non si tratta di censurare, ma di rendere semplicemente più sicura la rete ed esigere che coloro che guadagnano attraverso di essa facciano anche investimenti etici per protegge l'infanzia.
In Messico esiste una polizia postale, ma non è sufficiente, la cosa più urgente da fare è ottenere che Facebook e tutte le società che si occupano di Reti sociali, incluso Twitter, si assumano le loro responsabilità nel:
1) mantenere le informazioni dei profili denunciati senza cancellare l'impronta che possa condurre le autorità a improgionare l'aggressore.
2) investire le risorse necessarie per bloccare la pedopornografia nelle sue reti.
3) lasciarsi coinvolgere nella creazione di programmi che registrino i volti dei minori abusati, in quei paesi in cui hanno milioni di utilizzatori.
4) smettere di ostacolare gli attivisti che denunciano il loro disinteresse nel proteggere l'infanzia. 
Se anche tu vuole unirti ai più di un milione di firmatari di questa petizione, clicca qui: http://www.causes.com/causes/580526-force-facebook-to-block-all-child-pornography

mercoledì 31 ottobre 2012

Isoke Aikpitanyi, la scrittura come strumento di lotta

Pubblico qui questo ottimo articolo appena uscito sul sito della Società Italiana delle Letterate: 

 ”Tanti uomini che ho incontrato mi hanno chiesto    perché facessi quella vita. Ho risposto chiedendo perché mi venissero a cercare”
«Quando ho letto Le ragazze di Benin City ho pianto. Dopo aver letto  500 storie vere, mi sono detto: devo fare qualcosa e farlo pubblicamente. Non è un semplice libro, provoca reazioni, è strumento di lotta e di cambiamento».
A parlare è Gianguido Palumbo, di Maschile Plurale, palermitano che vive a Venezia, durante la presentazione 500 storie vere, il libro di Isoke Aikpitanyi, a Palermo per  la Giornata europea contro la tratta.  Il libro riporta la testimonianza di altri uomini, venti, tutti ex clienti, che hanno deciso di mobilitarsi pubblicamente a favore di ragazze africane vittime della tratta. In Italia sono più di quindicimila e hanno dato un contributo non indifferente alla realizzazione del libro/ricerca di Isoke perché chi è in grado di avvicinare le vittime, più degli stessi operatori di strada, sono proprio i clienti.
Del resto, racconta Isoke nel libro, come nelle rispondere alle domande del pubblico, il suo riscatto è cominciato quando ha conosciuto Claudio Magnabosco, suo attuale compagno:
«Iniziammo insieme un percorso che avrebbe portato me fuori dalla tratta e lui fuori da un senso di impotenza contro i trafficanti, e di colpa per esserne stato complice. Scrisse un romanzo verità Akara-ogun e le ragazza di Benin city che diventò un manifesto. Molti  uomini arrivavano a casa nostra con ragazze africane in cerca d’aiuto. Cominciai ad occuparmi di loro, le accoglievo in casa, e nacque il progetto La ragazza di Benin city. Non volevo limitarmi a dire poverine quanto hanno sofferto, volevo creare una rete  per dare alle ex vittime della tratta la possibilità di dare sostegno a ragazze ancora vittime. Per raccontarsi  e darsi voce pubblicamente. Non volevo essere  oggetto di studio da parte di specialisti,  ma soggetto attivo.  Era il 2006 e ne conoscevo  47. Oggi sono oltre 300».
Alta, nera, statuaria, vestito sontuoso, lunga collana bianca, capelli cortissimi, Isoke parla lentamente,  concedendosi lunghe pause. Alla domanda «perché ti sei decisa a scrivere», risponde come  nell’incipit del libro:
“Io non volevo scrivere libri. Vendevo frutta e verdura con mia madre a Benin city  e desideravo venderla in Europa. Il nostro inferno è cominciato con la tv. Dentro quella scatola magica vedevamo tutti i nostri sogni. Conoscevamo già gli Italos, la tv ce li mostrava tutti  ricchi. Alcuni  avevano cominciato ad offrire alle ragazze più giovani la possibilità di raggiungere l’Europa. Effettivamente quelle che erano già partite mandavano i soldi a casa e quelle che tornavano erano piccole regine piene d’oro. Non ci chiedevamo come. Quando toccò a me ero pronta ad affrontare l’avventura. Io proprio non volevo scrivere libri ma quello che mi è capitato qualcuno doveva pur raccontarlo ed è toccato a me perché ho visto come un sogno si può trasformare in incubo».
Quando è arrivata Isoke aveva vent’anni. Le avevano promesso un lavoro di commessa.  S’è ritrovata, come tante altre, a vivere in schiavitù.
Il libro, con una introduzione di Susanna Camusso, è insieme indagine, documento di protesta e di proposte operative,  su una realtà che Isoke  chiama “sommersa” in quanto le nigeriane non sono costrette solo a prostituirsi – stupro a pagamento Isoke definisce la prostituzione – ma sono schiavizzate, massacrate, violate, uccise . Molte si ammalano psichicamente. E’ una tratta gestita da una mafia potente e violenta, la stessa che traffica in organi e armi.
«Avvicinare le ragazze è difficile perché vengono spostate continuamente in zone sempre più periferiche, dove disturbano meno o dove le questure sono più morbide», spiega Isoke.
L’indagine è stata realizzata, oltre che con l’aiuto di ex clienti, insieme ad altre ex vittime, come Vivian e Sharon,  che hanno raccolto le risposte di 500 donne al questionario  proposto. Queste alcune cifre: ventimila vittime di tratta il cui numero aumenta mentre si abbassa l’età; diecimila maman; sette milioni di clienti; il debito da riscattare pari a centomila euro “trattabili”; 500 le donne uccise negli ultimi due anni;  profitto in Italia pari a diecimilioni di euro l’anno.
«Il nuovo oleodotto dove scorrono esseri umani al posto del petrolio», così Isoke definisce il business della tratta.
Dal questionario emerge che la maggior parte delle ragazze non sapeva che avrebbe dovuto prostituirsi, è senza permesso di soggiorno, non conosce i servizi antitratta e soprattutto non denuncia perché teme  il rimpatrio.
«L’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione prevede la denuncia per accedere al programma di protezione, me  le ragazze non si sentono garantite perché le pene per chi sfrutta sono lievi e soprattutto brevi e temono le ritorsioni nei confronti soprattutto delle famiglie in Africa. Sono gli stessi motivi per cui non vanno al pronto soccorso nemmeno in punto di morte».
Nel libro sono anche raccolte 100 storie di vittime di stupri. Stupri quotidiani di bianchi, di gruppo, e spesso consumati dagli stessi connazionali che vivono in Italia e «che le schifano perché si vendono ai bianchi».
«Tanto nessuno  denuncia. Lo stupro di un’africana non fa notizia, la polizia non interviene, in ospedale non c’è attenzione. Dicono che non ci sono strumenti, ma se ad essere stuprata è una bianca è tutto diverso» dice Isoke.
I connazionali vengono assoldati dalle maman per picchiare chi si ribella o per “insegnare” alle più piccole come si fa a stare sul marciapiede.
C’è la storia di Judith, 14 anni, lasciata sull’asfalto più morta che viva alla sua prima sera di lavoro; di Prudence, 20 anni, analfabeta, che non vuole ricoverarsi, anche se ha l’utero perforato, per paura del rimpatrio; Tessie costretta a bere acido muriatico perche non voleva più saperne del marciapiede. A Sandra invece hanno strappato le unghia della mano. C’è Joy che dopo pochi giorni di matrimonio fu costretta a partire per l’ Italia dallo stesso marito e dal pastore che li aveva sposati e quando si è ribellata le è stato gettato in faccia un liquido corrosivo. E c’è Joan che è diventata una maman perché non riusciva a soddisfare le richieste continue della sua famiglia. Oggi è in prigione.
“Diventare una maman  per alcune fa parte del sogno”, scrive Isoke.
Poi ci sono le ragazzine, 13, 14 anni, vergini vendute agli Italos dalle famiglie.
Spiega Isoke : «Per le famiglie rappresentano un investimento. Significa che se va bene c’è da mangiare per tutti, si possono mandare i figli a scuola, comprare una casa e magari pure la macchina. Quando arrivano certe notizie dall’Europa, finché i soldi arrivano stentano a credere, o fanno finta di non credere, ma se la ragazza torna, e spesso torna in condizioni disumane, viene scacciata perché la colpa è sua, non è stata brava, non ha saputo utilizzare l’opportunità. Questa è la realtà anche se crudele … Ma la via d’uscita c’è, io la indico nel libro. Se per fare questo devo scrivere, io scrivo. Non c’è bisogno di essere intellettuali per dire la verità».
Isoke Aikpitani, 500 storie vere  Ediesse, Roma 2011 , 150 pagine, 10 euro
Laura Maragnani e Isoke Aikpitani , Le ragazze di Benin City, Melampo, Milano 2007, 211 pagine 12 euro

Fonte: http://www.societadelleletterate.it/2012/10/isoke-aikpitanyila-scrittura-come-strumento-di-lotta/

giovedì 18 ottobre 2012

18 ottobre (testimonianze - 5)



Oggi è la giornata europea contro la tratta di esseri umani. Non trovo niente di meglio per questa giornata che postare una lettura di alcuni brani dal libro "Le ragazze di Benin City" di Isoke Aikpitanyi. Un altro brano tratto dal libro l'avevo postato qui, mentre qui ho recensito il secondo libro, "500 storie vere".


Chi  tiene alle ragazze, anche solo come si tiene a una merce da sfruttare, non farà mai fare loro un viaggio così terribile. Vuole che tu arrivi sana e salva e in buone condizioni. Buone vuol dire: abbastanza da lavorare. Subito.
Il viaggio nel deserto lo fanno i ragazzi che non hanno trovato un’organizzazione, o le ragazze che proprio vogliono venire via e non hanno i soldi per pagare e sono disposte a morire nel provarci.
Ma una maman che fa questa cosa alle sue ragazze, ecco: è il peggio che puoi trovare, quando arrivi in Europa.
Come Carol di Brescia.
Chiedi in giro, la conoscono tutte.

Carol ha fatto un viaggio orribile, anni e anni e anni fa. E’ stata una delle prime donne che sono partite, coi primi giri, quando ancora non c’era tanta organizzazione. Partivi e via. A volte arrivavi, a volte no.
Solo quando si è capito che le ragazze sono un business redditizio sono cominciati i giri mafiosi, l’organizzazione capillare, i viaggi studiati in modo che la merce arrivasse in condizioni migliori. E’ stato allora che hanno cominciato a coinvolgere anche le famiglie nei contratti, così da avere un controllo all’origine.
Ma questa è un’altra storia, e te la racconto dopo.
Adesso ti dico che Carol ha fatto un viaggio spaventoso.
Attraverso il deserto. Non ti so dire i dettagli ma ti dico solo che chi l’ha ordinata era una che se ne fregava, come la maman di Osas. A un certo punto del viaggio a Carol si sono congelate le dita delle mani. Dice: era la mia mano sinistra, per l’esattezza. E mica l’hanno portata all’ospedale. Gliele hanno tagliate lì dove stava, con una specie di machete.
 Quando è arrivata in Italia l’hanno mandata sulla strada.
Lei ha detto no, non voglio, non posso. Ha mostrato il moncherino: guardate la mia mano, ha detto. Guardate, ha detto, io non sono in grado di lavorare.
Per fare il lavoro che devi fare, le mani non ti servono.
Proprio così. E’ questo che le hanno detto.
E la Carol di allora non era ancora la Carol di oggi, era una ragazza come le altre, una che non è riuscita a reagire, che è andata a lavorare, e lavorando ha pagato il debito. Quando ha finito di pagare ha detto: voglio fare i soldi anch’io. Io con questa mano non posso fare altri lavori.
Ha ordinato anche lei una ragazza e adesso ne ha più di dieci che lavorano per il suo guadagno, e alle prime ha fatto fare tutto il viaggio lungo, esattamente come le era toccato di fare.
Per vendetta, dici.
Può essere.
Oggi come maman è spietata.
Quando una ragazza si ribella, lei dice: cosa credi, guarda le mie mani, non ci metto niente a tagliarle anche a te.
Le sue ragazze dicono che picchia, picchia, picchia. Basta un niente e lei picchia. Ha un marito nigeriano che va a controllare le ragazze sul marciapiede, e poi fa la spia. Soprattutto d’inverno. Quando nevica o ghiaccia e devi stare fuori tutta la notte sotto lo zero. Quando sulla strada tutte accendono il fuoco, ed è normale, perché se non ti scaldi un po’ finisci congelata. Ebbene: lei non lascia mai andare le sue ragazze vicino al fuoco.
Se una ha interrotto il lavoro per scaldarsi, e ha guadagnato anche solo un euro meno del dovuto, sono botte su botte.
Carol la riempie di botte.
Dice: ti faccio passare io il freddo.
Dice: guarda le mie mani e muoviti.        
         
Quando dico che si muore dentro devi credermi.
Ci sono dei momenti in cui è tutto così spaventoso e osceno e intollerabile che non puoi stare lucida e sopravvivere. A meno di non impazzire.
Qualcuna infatti impazzisce.
Altre si riempiono di alcool, o di eroina, o di medicine come gli antistaminici che ti ovattano la testa così non pensi più a niente.
Altre ancora si rompono, dentro.
Diventano perfettamente insensibili.
E quando alla fine escono dal trambusto, l’unica cosa che sanno dire è: anch’io voglio fare i soldi, e chissenefrega  delle altre. Prima è toccato a me, adesso tocca a loro.
E’ così che va il mondo, dicono.
E  forse è il loro modo di venire  a patti con quello che hanno passato. Di farsene una ragione.

Comunque Osas ha finalmente potuto avvertire i suoi. Ha chiamato sua mamma, per dirle cos’è successo.
Meno male, ha detto la madre. Sei viva, sono contenta.
Per due anni non aveva saputo che fine avesse fatto sua figlia.
Osas ha detto: sono viva, ma guarda cosa mi fanno fare.
Ma né suo padre né sua madre sono andati a protestare con la mamma della maman. Hanno detto solo va bene, l’importante è che sei viva.
Osas ha detto: ma non sai la vita che faccio. E che freddo. E sua madre: non esagerare, in Italia si lavora nei locali, si sta al caldo.
Mamma, bisogna vendersi.
Ma sua madre non ha mai fatto problemi. Si vede che sapeva dal principio, dico io.
E a quel punto Osas non si è più ribellata con nessuno. Dopo quello che aveva passato nella foresta e nel deserto, ora si ritrovava così, senza documenti e senza soldi, e con sua mamma che diceva va bene, non importa, lavora. Non aveva un posto dove scappare. A casa non la rivolevano. Che cosa poteva fare se non chinare la testa e dire: va bene.
(p.42-45)

[…]

Intanto l’organizzazione va a far casino a casa tua. Loro lo sanno: prima o poi ‘sta ragazza chiamerà i suoi genitori. Quindi tengono d’occhio la tua famiglia, se riceve telefonate o lettere. E allora vanno in casa e dicono: la ragazza deve rispettare i patti, altrimenti vi ficcate nei guai.
E’ una minaccia che funziona sempre, soprattutto quando sono stati i genitori ad accompagnare le famiglie dagli italos, come negli ultimi due o tre anni.  Ragazzine di tredici, quattordici anni. L’organizzazione le cerca così giovani perché sono più facili da gestire, e prima che riescano a capire le cose passa molto tempo. Prima che comincino a essere veramente donne, adulte, e capire cosa gli hanno fatto fare, e cosa gli hanno fatto.
Così alle feste di paese, ai matrimoni, ai funerali, c’è sempre qualcuno che filma le ragazze, e poi le maman guardano il film: quella è bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo vecchia, quella sì che va bene. Quella piccolina lì. E’ lei che voglio.
E quando la scelta è fatta lo sponsor va dalle famiglie con dei regali. Dice: in Europa hanno bisogno di belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta. Perché non ci pensate?
E la famiglia quasi sempre dice di sì. Anzi, adesso sono le madri e i padri a muoversi, a portare le loro figlie. Sanno che in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia si è fatta la macchina, ha comprato casa. Allora dicono: anch’io.
Sanno tutto, secondo me.
Ultimamente sì, lo sanno.
Ma il paese non offre niente. E loro pensano che sì, questa figlia la mandano a fare una vita difficile, ma almeno così avranno un aiuto, potranno far studiare i bambini, comprarsi il mangiare, i vestiti, la casa.
(p. 47)

 […]

Perché è questa , forse ancora più del debito, la catena più difficile da spezzare per le ragazze. La catena dei mille obblighi familiari e delle mille responsabilità che te ne vengono. Dell’affetto. Della pena. Del desiderio comunque di essere accettate, e di pensare che al mondo, anche per te, anche se vivi in schiavitù su un marciapiede e ogni giorno muori di freddo e di angoscia, esiste ancora una casa. E’ per alimentare questo miraggio che ti ritrovi a mantenere dieci o dodici persone, e a fargli fare una bella vita mentre tu vivi  peggio di un cane.
Ed è molto difficile dire: basta.
Ma se vuoi salvarti devi farlo. Devi chiudere una porta in modo molto deciso, e trovare il coraggio di aprirne un’altra, anche se non sai che cosa c’è dietro. Io dico: un nuovo modo di vivere, di pensare, di stare al mondo. Ma è come chiudere gli occhi e tuffarsi dentro a un mare molto freddo, dico anche, senza sapere nemmeno se sei in grado di nuotare.
Però devi farlo.
Devi trovare il fegato di dire: il mio viaggio è stato tutto un fallimento.
Ed ecco, vedi, è da quel fallimento che può nascere una nuova vita.

La rabbia è la prima cosa che esce, quando dici basta.
Una rabbia furiosa e incontenibile verso tutto e verso tutti.
Finché come Osas arriva il giorno che dici: la mia rabbia adesso è per la Nigeria, un  paese pieno di rosorse ma dove la gente vive in maniera miserabile.
Dove non c’è  speranza di cambiamento o di miglioramento per nessuno.
Ed è per questo che i giovani vogliono partire, dice. Perché sono stanchi di sognare davanti alla televisione, e perché vogliono provare a farsi una vita migliore.

Io, Isoke, adesso non ci credo più che esiste il paradiso: ma un giorno anch’io ci credevo, e pensavo che fosse fuori dalla Nigeria. Non ne potevo più di stare in un posto dove i poveri sono poverissimi e i ricchi sono ricchissimi, a due metri soli da casa tua. Tu non hai la penna per scrivere e i libri per andare a scuola, la tua famiglia fatica a darti da mangiare, e i tuoi vicini danno il roast beaf al cane. Ma come fai ad accettarlo? Tu non mangi abbastanza e al villaggio vengono i parenti ricchi: vieni in città che ti faccio studiare. E poi ti ritrovi in casa loro a fare la serva.
Non si può.
Tu vedi tutta quest’ingiustizia e la rabbia nasce lì, la rabbia e la voglia di scappare, di conquistare qualcosa di meglio.
Ma che c’è di male a sognare?
Nulla, dico io.
Il male lo fa chi si approfitta dei tuoi sogni.

Le ragazze come Osas cominciano a capire.
Guardano la loro storia e capiscono.
Che hanno dovuto assumersi troppe responsabilità fin da piccole, ed è per sfuggire a quelle responsabilità che sono finite nella tratta. Ma la tratta non è la soluzione per i problemi  della Nigeria. Se le famiglie non hanno i soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora devono fare la loro parte: che protestino. Si assumano le responsabilità di chiedere ai padroni e al governo dei salari migliori, delle scuole migliori, una migliore qualità della vita.
Non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente.

Io tutte queste cose prima non le pensavo. Le vedevo e le pativo; ma è solo adesso che le ho finalmente chiare dentro la testa, e ho imparato anche ad esprimerle con le parole. Sono molto diversa dalla ragazza di vent’anni che un giorno è partita da Benin City con lo zaino della scuola e il suo unico paio di blue jeans. Nel male come nel bene, vedi, quest’esperienza mi ha fatto crescere.
Per esempio ho capito che le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, che non c’è il buono e il cattivo, la vittima e il carnefice.
E quindi ora ti spiego che la tratta non è solo un problema di sesso, di puttane e di clienti. La tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. E’ una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la maman che ho visto su un giornale, seduta su un divano a Benin City, circondata da pile alte così di soldi. Ci sono anche i bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie, quelli che magari la domenica vanno in chiesa, hanno un bel cane, bravi vicini, una reputazione su cui non appare mai l’ombra di una macchia. Sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro agli aeroporti. Sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari. Un sacco di brava gente che ha fatto fortuna grazie al traffico delle ragazze di  Benin City.
Ma agli occhi di tutti sono loro le cattive.
Le puttane.
Quelle che danno scandalo per le strade.
Quelle che pagano sempre per tutti.
(p. 195-198)

[…]
L’ultima storia che ti racconto è quella di mia sorella.
La mia sorella più piccola, quella che adesso ha poco più di vent’anni. Ne aveva quattordici quando sono partita. Mi ricordo a malapena una ragazzetta magra, con le gambe molto lunghe. Le treccine nei capelli. Gli occhi grandi così.
Pochi mesi fa mi ha detto che era incinta e che voleva venire in Europa.
Aveva trovato un viaggio, anche lei.
Ha detto: finalmente ho la mia bella occasione.
La sua bella occasione.
Ho chiuso gli occhi e dentro di me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia. Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie.
A malapena ho trovato la voce per dire: guarda, se vuoi sognare, sogna.
Ma la realtà qui è ben diversa dai sogni.
Ascolta.

Ho preso, il cuore in mano e ho cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono. L’esistenza brutta che fanno.
Era la prima volta che trovavo il coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: di dire tutto, tutto!, senza risparmiare un solo dettaglio. Vedi: non potevo tacere, stavolta. E dunque, con la bocca secca, le ho spiegato tutto come si deve. Le ho detto il freddo e le botte e le scarpe ridicole e la paura. I venticinque euro e il Ditoi e Ithoan trovata da un cane tutta mangiata dai topi.
Non pensare di essere più furba delle altre, ho detto.
Non sperare di essere diversa.
Non pensare che a te andrà meglio.
Ecco cosa le ho detto.
Lei ha solo chiesto: è successo anche a te.
Ho detto: sì.
E di venire in Europa non ha più parlato.
Devo proprio dirtelo, che sono felice?

(p. 199-200)




lunedì 8 ottobre 2012

Global mafias

Incollo qui una interessante pagina, tratta dal sito di Libera, in cui si parla dettagliatamente delle mafie straniere presenti in Italia. Si tratta di gruppi di criminalità organizzata di stampo mafioso, riconosciuti tali anche in processi condotti dalle Direzioni Distrettuali Antimafia, ma di cui spesso si ignora l'esistenza, perchè della mafia si ha ancora un'idea piuttosto primitiva, legata non solo esclusivamente alle organizzazioni "storiche" (mafia siciliana, 'ndrangheta, Cosa nostra, camorra, ecc..) ma anche a un modus operandi statico e in gran parte superato. Ci tornerò, ma con questo mi riferisco soprattutto a due aspetti: la riduzione delle mafie al loro braccio armato - mentre sempre più di frequente le mafie operano come soggetti attivi nell'economia legale e controllando pezzi di istituzioni - e l'emergere di nuove organizzazioni (come quelle nate dalle ceneri dei paesi dell'Est Europa dopo il crollo del muro di Berlino) che sempre più operano in modo interconnesso e si muovono a livello globale, abbattendo i confini delle nazioni. Penso che non si possa parlare realisticamente di tratta e di sfruttamento della prostituzione senza approfondire l'esistenza e il modus operandi delle mafie che gestiscono in proprio questo business o traggono guadagni dal patto siglato con chi le gestisce. E' bene chiarire che questi gruppi criminali non operano da soli, ma grazie alle connivenze e al coinvolgimento attivo di cittadini italiani coinvolti nello sfruttamento delle ragazze (ad esempio proprietari di night club o di hotel in cui si nasconde lo sfruttamento della prostituzione di ragazze staniere) o - nel caso della tratta di esseri umani per lo sfruttamento lavorativo - imprenditori agricoli e industriali interessati a sfruttare manodopera a bassissimo costo. Per non parlare di politici, funzionari addetti all'immigrazione e delle forze dell'ordine corrotti, anche grazie al loro essere clienti, per quel che riguarda la tratta a scopo di sfruttamento sessuale.
Per non parlare delle numerose connessioni tra mafie straniere e quelle italiane, come il connubio tra mafia albanese e 'ndrangheta nella tratta e sfruttamento della prostituzione (qui, ad esempio, un articolo che ne parla, ma segnalo anche questo approfondimento dal blog l'Incarcerato).


A partire dai primi anni '90 del XX secolo, in considerazione di quanto avvenuto a livello politico, sociale ed economico con il crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) in Italia, particolarmente nelle zone centro-settentrionali del paese, hanno fatto la loro comparsa gruppi criminali stranieri, denominati Nuove mafie o mafie straniere. In particolare si tratta di gruppi di origine:

Mafia albanese

I gruppi criminali albanesi, di norma, sono formati da persone provenienti dalla stessa città, dallo stesso quartiere e, addirittura, dallo stesso nucleo familiare. Essi hanno una struttura generalmente orizzontale, all'interno della quale è riconoscibile soltanto il capo. Usano la violenza per diffondere il messaggio di un potere al quale è quasi impossibile sottrarsi.

Le principali attività delittuose poste in essere dai gruppi criminali organizzati albanesi sono:

* sfruttamento della prostituzione, prevalentemente in danno di donne, albanesi e di altre nazionalità, spesso di giovane età, introdotte clandestinamente in Italia e, non di rado, sequestrate nei paesi di origine e ridotte successivamente in uno stato di schiavitù. I criminali albanesi, insieme ai rumeni, sono i principali gestori del mercato della prostituzione in Italia;
* traffico di sostanze stupefacenti: in questo caso i gruppi criminali albanesi fungono da "organizzazioni di servizio" per le mafie italiane, in quanto si occupano della fornitura, del trasporto (via mare e terra) e dello stoccaggio delle droghe anche per conto delle mafie italiane. Droghe che, in seguito, verranno spacciate sul territorio europeo e di altri paesi stranieri. A tal proposito, può affermarsi che le strutture criminali albanesi sono divenute ormai referenti dei più qualificati cartelli di narcotrafficanti sudamericani;
* traffico di armi da guerra dall'Albania e da altri stati dell'ex Jugoslavia;
* furto di auto di grossa cilindrata;
* rapine in ville situate nell'Italia centrale e settentrionale.

Le ricchezze accumulate mediante il compimento dei reati sopra citati vengono in parte utilizzate per finanziare le attività illecite; per il resto, indagini recenti hanno evidenziato che le organizzazioni criminali albanesi reinvestono ingenti somme di denaro, oltre che in Albania anche nel Kossovo, per l'acquisto di numerose proprietà immobiliari e/o attività commerciali.

Mafia rumena

I gruppi criminali rumeni presenti in Italia agiscono soprattutto nel centro-Nord del paese e sono attivi nei seguenti mercati criminali, spesso in collaborazione con criminali albanesi, ucraini: immigrazione clandestina e tratta di esseri umani; sfruttamento della prostituzione; rapine; clonazione e contraffazione di carte di credito.

Similmente per quanto è stato accertato per i criminali albanesi, anche i gruppi criminali rumeni utilizzano metodi particolarmente violenti, ricorrendo a forme di violenza fisica e/o psicologica nei confronti delle giovani donne sfruttate, spesso ridotte in schiavitù e, in alcuni casi, vendute ad altri gruppi di diverse etnie.

Mafia bulgara
Le organizzazioni criminali bulgare agenti in Italia sono dedite al compimento delle attività illecite riscontrate per quelle rumene, cui si aggiunge il traffico di sostanze stupefacenti (in particolare cocaina), di armi e il contrabbando di tabacchi e lavorati esteri.
La criminalità bulgara è particolarmente coinvolta nello sfruttamento di minorenni per lo svolgimento di furti, borseggi e attività come l'accattonaggio. I minori sono reclutati fra le famiglie meno abbienti della zona centro-settentrionale della Bulgaria, le quali cedono i loro figli in affitto, per un certo periodo di tempo, a esponenti di organizzazioni criminali, ricevendone in cambio un determinato corrispettivo. Tra i minorenni sfruttati si trovano soprattutto bambine e giovani ragazze nomadi di etnia Sinta.
Gli appartenenti ai gruppi criminali bulgari sono molto mobili sul territorio nazionale, dispongono e utilizzano documenti di identità falsi e parlano tra di loro utilizzando i dialetti, elemento quest'ultimo che rende particolarmente impegnative le indagini, anche per la difficoltà di reperire degli interpreti fidati.

Mafia nord-africana (nigeriana e maghrebina)
I gruppi criminali nigeriani operanti in Italia sono caratterizzati da frammentazioni etnico-tribali, filiazioni di una vasta struttura criminale, costituita da poche famiglie, che hanno il centro decisionale in Nigeria. Il fenomeno dello sfruttamento della prostituzione è il dato più allarmante registrato con riferimento alla immigrazione clandestina nigeriana. Le ragazze nigeriane sfruttate nel mercato della prostituzione sono ridotte in schiavitù mediante riti magico-tribali detti "riti woodoo o juju". Lo sfruttamento è gestito da donne definite "madame" o "maman".

Sono stati accertati collegamenti tra la mafia nigeriana e la camorra campana, in particolare nella provincia di Caserta. Il rapporto si spiega con i seguenti motivi: le prostitute ed i loro protettori costituiscono, molto spesso, delle vere e proprie vedette della camorra; i clan nigeriani sono costretti a pagare una sorta di "canone di affitto" del territorio alla camorra per l'utilizzo del suolo sul quale le ragazze esercitano la prostituzione.

I gruppi criminali nigeriani sono coinvolti anche nel traffico di sostanze stupefacenti. La Nigeria, attualmente, è il più importante paese africano per il mercato degli stupefacenti. Nel paese, infatti, giungono e transitano gli stupefacenti provenienti dal Brasile, dalla Colombia, dal Pakistan o dalla Thailandia, con destinazione Europa e Stati Uniti. I nigeriani trafficano tutti i principali tipi di droga, dalla cocaina all'eroina, dalla cannabis alle droghe di sintesi. I corrieri, spesso di diversa nazionalità e di sesso femminile, sono tutti in regola con i permessi di soggiorno, di solito senza precedenti penali. Dopo un numero limitato di viaggi non vengono più utilizzati. Essi hanno solo rapporti con colui che direttamente dispone il viaggio e con il soggetto che li attende nel luogo di destinazione, perciò, in caso di arresto, non sono in grado di rivelare nulla dell'organizzazione. Ogni viaggio frutta 3.000 euro circa al corriere.
Recenti stime indicano che in Nigeria operano circa 400 centrali del crimine, 136 delle quali specializzate nel traffico di droga e la metà con ramificazioni internazionali.
I gruppi criminali hanno una struttura verticistica, nella quale emerge la figura di uno o due capi rigorosamente nigeriani, che gestiscono a livello internazionale i rapporti tra i vari gruppi. La base, generalmente, non ha invece una precisa connotazione etnica, in quanto i nigeriani preferiscono avvalersi di soggetti non strettamente legati all'organizzazione per la fase più rischiosa costituita dal trasporto.

In Italia operano anche organizzazioni criminali di origine maghrebina, impegnate nel traffico di sostanze stupefacenti, nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e nella tratta di esseri umani, finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e nella contraffazione di documenti di identità. Tali organizzazioni sono composte da cittadini provenienti dal Marocco, dalla Tunisia, dall'Algeria, dalla Libia e dalla Mauritania, che operano in piccoli gruppi, soprattutto nei capoluoghi di provincia del centro-nord Italia.

Mafia sud-americana (colombiana)

Traffico di cocaina, immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione esercitata all'interno di private abitazioni e in locali notturni gestiti da italiani sono le principali attività illecite della criminalità sudamericana presente in Italia. Tra i gruppi di maggiore rilevanza vi è senza dubbio la mafia colombiana. Quest'ultima è costituita da gruppi criminali denominati "cartelli", il cui nome deriva dal territorio in cui agiscono (Calì, Medellin, Santa Marta, Magdalena, ecc.). I cartelli, di norma autonomi, sono dediti, prevalentemente se non esclusivamente, alla produzione, alla esportazione e alla distribuzione di ingenti quantità di cocaina raffinata in Colombia oppure acquistata in altri Paesi interessati alla coltivazione, quali l'Ecuador, la Bolivia, il Perù, il Venezuela, il Brasile e l'Argentina.

La Spagna e l'Olanda costituiscono le principali piazze europee di stoccaggio e successivo collocamento della droga sul mercato europeo. L'Albania è stata scelta quale luogo di stoccaggio della cocaina. Gli ingenti carichi vengono trasportati per via marittima o attraverso l'impiego sistematico di corrieri, spesso incensurati, i quali, con viaggi frequenti portano con sé quantitativi minori di sostanza stupefacente. Le organizzazioni narcotrafficanti colombiane hanno costituito vere e proprie basi logistiche sul territorio italiano e, pur considerando la 'Ndrangheta l'organizzazione di riferimento a livello nazionale, mantengono contatti anche con altre organizzazioni di tipo mafioso comprese quelle di matrice straniera quali quelle albanesi e nigeriane.
I cartelli colombiani riciclano, con sempre maggiore frequenza, i proventi del traffico degli stupefacenti in investimenti immobiliari e in attività produttive nella maggiore parte dei paesi dell'Unione Europea, fra i quali l'Italia.

Mafia russa

La mafia russa è costituita da una miriade di gruppi criminali, di diversa origine e non necessariamente collegati tra loro. Essi dispongono di enormi risorse finanziarie acquisite, soprattutto, con le "privatizzazioni", seguite al mutamento degli scenari politici interni. Infatti, i gruppi criminali russi hanno acquisito ingentissime quantità di titoli azionari, risorse immobiliari e il controllo di molteplici imprese e banche. I gruppi criminali dell'ex Unione Sovietica si sono ulteriormente consolidati attraverso la elezione di propri rappresentanti nelle amministrazioni locali e nel Parlamento.
Le attività illecite nelle quali risulta essere coinvolta la mafia russa sono: traffico internazionale di armi; traffico di droga; traffico di tabacchi e lavorati esteri e di materiale strategico, acquisiti in seguito al processo di smilitarizzazione delle strutture statali.

In base agli accertamenti di tipo giudiziario, può affermarsi che gli episodi criminosi commessi in Italia da cittadini dell'ex Unione Sovietica, sono caratterizzati: dalla presenza di rilevanti disponibilità finanziarie; dalla relativa giovane età delle persone coinvolte nell'attività delittuose; da un'apparente mancanza di contatti con le organizzazioni criminali italiane.

Le zone in cui è stata riscontrata la presenza di criminali provenienti dall'ex Unione Sovietica sono: Lombardia (Milano), Lazio (Roma), Toscana (Firenze), Emilia Romagna (Modena, Bologna e Rimini), Piemonte, Veneto (Verona), Friuli - Venezia Giulia, Marche (Ancona), Campania (Napoli e Caserta). Sono stati registrati acquisti di strutture turistico-alberghiere, aziende agricole, industrie produttrici di oggetti di largo consumo (scarpe, vestiti, elettrodomestici, ecc.), gestione di ditte di import-export.


Mafia cinese

Le investigazioni svolte hanno posto in evidenza che, in Italia, non opera un'unica organizzazione criminale cinese, bensì numerosi gruppi delinquenziali composti, di norma, da persone aggregatesi secondo la provenienza dalle città di origine della Cina Popolare. Ciascun gruppo è formato da un numero di persone variabili tra le dieci e le cinquanta unità ed i componenti, molto spesso appartenenti alla stessa famiglia, commettono delitti quasi esclusivamente in danno di connazionali. Ogni gruppo ha un capo e se ne entra a far parte attraverso cerimoniali di iniziazione. Analogamente avviene per coloro i quali fungono da mano d'opera sottopagata, prevalentemente in aziende clandestine: essi facilmente possono essere acquisiti, quale manovalanza, da soggetti della medesima etnia che operano nel campo dell'illecito.
Il vincolo all'interno della famiglia o del gruppo è molto stretto, per cui assai radicato è il concetto di vendetta che può arrivare ad assumere il carattere della faida.
I gruppi criminali cinesi, al pari delle mafie tradizionali, ricorrono, con estrema facilità e frequenza, alla intimidazione e/o alla violenza per raggiungere i loro obiettivi, praticano la regola dell'omertà e tendono al dominio del territorio ove operano. Le attività delinquenziali tipiche poste in essere, in Italia, da gruppi criminali organizzati cinesi sono: il traffico di clandestini ed i reati connessi alla falsificazione di documenti; i sequestri di persona a scopo di estorsione in danno di connazionali, molto spesso legati alla riscossione del prezzo da pagare per l'espatrio illegale, per il viaggio e per l'introduzione clandestina in Italia; le estorsioni in danno di ristoratori e di titolari di laboratori manifatturieri cinesi; le rapine; il recupero crediti con metodi intimidatori e violenti; l'organizzazione del gioco d'azzardo; lo sfruttamento della prostituzione, sotto la copertura di sale di massaggi e, più recentemente, anche su strada;
l'illegale detenzione e porto di armi; l'omicidio di appartenenti a gruppi criminali avversari; l' evasione fiscale in attività commerciali;
la contraffazione e commercializzazione di merce di ogni genere prodotta ed importata, in massima parte dalla Cina.

Per quanto riguarda i rapporti con la criminalità italiana va detto che solo negli ultimi anni si sono avuti casi di gruppi criminali misti, composti cioè da cinesi e italiani, dediti oltre che a estorsioni e rapine anche a sequestri lampo.
Indagini giudiziarie hanno attestato che ingenti somme di denaro sono state investite nel settore immobiliare sia in Cina che in Italia. Gli inquirenti hanno accertato che le transazioni economico-finanziarie compiute da cittadini cinesi avvengono, di norma, utilizzando denaro contante, si tratti di spese per la gestione di attività commerciali legittime o di finanziamento dell'immigrazione clandestina.

Secondo quanto evidenziato dalle indagini compiute dalla Direzione Nazionale Antimafia e dalle Direzioni distrettuali antimafia, i gruppi stranieri rientranti nella fattispecie di reato di cui all'art. 416-bis c.p. presenti in Italia hanno le seguenti caratteristiche:

a) ciascuna realtà criminale ha una propria specificità connessa agli ambiti culturali di provenienza;
b) l'insediamento avviene preferibilmente nelle regioni dove minore è la presenza di mafie italiane, vale a dire non nelle regioni meridionali, fatta eccezione per la Campania;
c) la tendenza è quella di non formare alleanze con le mafie italiane, se non per specifici affari illeciti;
d) gli affiliati alle dette organizzazioni sono, in massima parte, clandestini.

Le attività illecite nelle quali sono maggiormente coinvolti i gruppi criminali stranieri sono quelli relativi al:

traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti,
sfruttamento della prostituzione
riduzione in schiavitù di migranti
violazione delle norme in materia di immigrazione.
Nel compimento delle citate attività sono emersi frequentemente rapporti tra le diverse compagini delinquenziali straniere, per cui gli investigatori sono soliti utilizzare il termine di "criminalità transnazionale" al fine di descrivere questa situazione.

Tratto da: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/403