Per la rubrica opinioni, riporto la traduzione di Maria Rossi, che ringrazio, di alcuni brani del recente libro della giovane femminista e anarchica svedese Kajsa Ekis Ekman (nella foto), tradotto in francese col titolo "L’être et la marchandise. Prostitution, maternité de substitution et dissociation de soi."
E' un punto di vista originale il suo e che richiama l'attenzione sulle insidie di una errata e tendenziosa lettura della parola "vittima" come di persona passiva, oggetto e non soggetto, che ha reso questa parola - di tutt'altro significato - un vero e proprio tabù.
In una società basata sul paradigma neoliberista che promuove sempre più profonde disuguaglianze di classe, di genere, di etnia, ecc.. , proteso a conservare tenacemente l'ordine sociale basato sul privilegio di pochi - si tende sempre più ad occultare le ingiustizie strutturali, assolvendo gli oppressori e finendo per ridurre persino le oppressioni più crudeli a libera scelta di soggettività atomizzate. Scomparsa la vittima, scomparso l'aggressore, scomparsa l'ingiustizia, fino ad arrivare a risvolti estremamente inquietanti..
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La vittima e il soggetto
Al centro del mito del lavoro sessuale, c'è un'espressione affascinante: la venditrice di
sesso non è una vittima, ma una personalità forte che sa quel che fa. Quando
una persona cerca di dimostrare quanto sia dannosa la prostituzione, viene
investita da una prorompente risposta: le sex workers sono persone forti e
attive, non vittime!
[...] E' sempre più frequente la celebrazione del
soggetto forte e attivo contrapposto alla vittima debole e passiva.
[...] Con questa opposizione tra vittima e
soggetto, il discorso favorevole al lavoro sessuale cerca di creare la propria rappresentazione della
situazione. Questa rappresentazione presume che, fino ad oggi, la società abbia
considerato le prostitute vittime senza difesa, mentre attualmente si sia
cominciato ad ascoltare le stesse venditrici di sesso e a scoprire che esse
sono, al contrario, forti individualità che hanno scelto liberamente di vendere
sesso. Questa concezione è ripetuta così spesso, oggi, da essere diventata una
verità in certi ambienti, cancellando per ciò stesso l'obbligo di discutere di
questioni come queste: chi pensa che le prostitute siano delle vittime, cos'è
una vittima e che cosa differenzia una donna forte da una debole?
Sopprimere
la nozione di vittima
Definire le prostitute persone forti è un'idea che
si è parecchio radicalizzata nel
dibattito internazionale sul lavoro sessuale. Jo Doezema, che appartiene al
gruppo di pressione "Network of Sex Work Projects", ritiene che
dovremmo sopprimere totalmente l'idea della vulnerabilità del soggetto [...]
Piano
inclinato: l'indipendenza
All'inizio, il discorso favorevole al lavoro
sessuale era piuttosto moderato. Ciò che ha posto fortemente in luce Östergren
parlando esclusivamente, a proposito di prostituzione, di adulti consenzienti;
la nozione di <<lavoro sessuale>> escludeva allora i bambini o le
vittime della tratta a scopo di prostituzione. Analogamente, Maria Abrahamsson
scriveva sul giornale Svenska Dagbladet:
Davvero,
non comprendo come si possano mettere sullo stesso piano le persone che vendono
liberamente sesso e quelle infelici che, a causa della povertà o delle ridotte
capacità intellettuali, cadono nelle grinfie di chi le sfrutta cinicamente.
Qui, alcune persone hanno il diritto di essere
qualificate vittime, ma solo se sono passive o stupide. Per contro, le persone
attive e consapevoli della propria scelta non possono, a quanto pare, subire un
simile affronto. La tratta a fini di sfruttamento sessuale e la prostituzione
infantile sono utilizzate come ricettacoli, come pattumiere di tutto ciò che
spaventa nella prostituzione - di ciò che tutti possono rifiutare senza
difficoltà: la coercizione, la povertà e la labilità mentale. Una volta che ci
sia sbarazzati di tutto questo, si potrà discutere di una prostituzione
nazionale normalizzata, senza spazzatura, composta esclusivamente da
imprenditrici del sesso indipendenti.
La tratta
degli esseri umani
Tuttavia, nei Paesi dove l'idea della
legalizzazione della prostituzione si è materializzata, i confini tra la
prostituzione degli adulti, quella dei bambini e quella delle vittime della
tratta hanno cominciato a diventare
porosi. Una volta affermata l'idea di una prostituzione ben gestita, si può
anche pulire la pattumiera, affinché la tratta a scopo di prostituzione sembri
un mito. La sociologa Laura Augustìn, legata al gruppo di pressione
"Network of Sex Work Projects" , ha impiegato questo tipo di detersivo.
Ha scritto diversi libri che descrivono la tratta degli esseri umani come un
mito mediatico. Collabora anche al quotidiano The Guardian, ove pubblica
articoli su questo argomento, in alternanza con altri su donne forti che
<<hanno scelto liberamente>> di portare il burqa. Tuttavia,
Augustìn insiste soprattutto sull'idea che sia necessario smettere di parlare
della tratta degli esseri umani, perché ciò significa
<<vittimizzare>> le persone. Conseguentemente, ella ribattezza le
vittime della tratta a scopo di prostituzione <<sex workers migranti>>,
ritenendo che la donna che ha vissuto la tratta sia stata, in fondo, fortunata:
Lavora
nei club, nei bordelli, nei bar e negli appartamenti multiculturali dove si
parlano molte lingue. [...] Per quelle che vendono servizi sessuali, gli
ambienti nei quali vivono sono luoghi di lavoro dove molte ore sono consacrate
all'incontro con altre persone che esercitano la stessa attività, alla
conversazione, alle bevute con le
colleghe, così come con i clienti e con gli altri impiegati dei locali come i
cuochi, i camerieri, i commessi, i
portieri, alcuni dei quali dimorano lì, mentre altri vi si trovano per lavoro.
Trascorrere la maggior parte del tempo in tali ambienti è un'esperienza che
crea soggetti cosmopoliti, almeno nel caso in cui le persone siano capaci di
adattarvisi. Per definizione, ciò genera una relazione particolare con
l'ambiente. Questi cosmopoliti ritengono che il mondo appartenga a loro, che
non sia che un luogo da abitare.
L'immagine della vittima della tratta a fini di
prostituzione è dunque quella di una persona che banchetta con i benestanti,
frequenta i locali notturni in diverse metropoli e forse dà, occasionalmente,
una toccatina ai clienti dietro il
bancone del bar. E' felice e dà un'impressione di agiatezza. E' interessante
notare che non figura da nessuna parte nella descrizione di questo ambiente
<<lussuoso>> in che cosa consista in realtà questo
<<lavoro>>.
I bambini
Abbiamo imboccato una strada nella quale anche i
bambini sono percepiti sempre di meno come vittime. In un contributo all'antologia
Global Sex Workers, Heather Montgomery, un'antropologa sociale, si applica a problematizzare l'immagine dei bambini
presentati solo come vittime della prostituzione. Ella ha effettuato delle
ricerche in un villaggio tailandese e pensa di aver scoperto qualcosa che
contrasta con l'immagine dei bambini
sfruttati. Montgomery comincia con il constatare che si tratta di un villaggio
povero <<senza acqua corrente, con un accesso sporadico
all'elettricità>>, che sorge vicino a una località turistica. In questo
villaggio vivono 65 bambine di età inferiore ai 15 anni, almeno 40 delle quali
<<hanno lavorato, in un momento o nell'altro della loro vita, come
prostitute>>. Mentre i media
affermano spesso che la prostituzione infantile è <<un flagello che
bisogna eliminare ad ogni costo>>, Montgomery vuole offrire un'altra
interpretazione di queste bambine: esse sarebbero soggetti attivi e razionali.
Tuttavia,
queste bambine rifiutano categoricamente di essere considerate vittime. [...]
Le bambine che ho imparato a conoscere provavano << il sentimento di
avere un potere di decisione e di controllo>> e, togliergli questo,
significherebbe negare il loro modo intelligente di utilizzare il poco
controllo che possiedono effettivamente. La ricerca di bambini vittime di
sevizie cancella talvolta il riconoscimento della loro capacità di agire.
Montgomery critica le persone che pretendono che
tutte le bambine prostituite siano <<sessualmente sfruttate>>. Ella
afferma che, anche se le bambine non amano la prostituzione, hanno sviluppato
dei modi per gestirla nella maniera migliore:
Nessuna
bambina apprezzava il fatto di essere una prostituta, ma tutte avevano
sviluppato delle strategie che consentivano loro di comprenderla e di
accettarla. Avevano trovato un sistema etico. Così la vendita del loro corpo
non influenzava il loro sentimento personale di umanità e di integrità.
La prostituzione non influenza, dunque, le bambine
tailandesi nel modo che si potrebbe credere, spiega Montgomery. Il segreto sta
nel non paragonarle alle bambine occidentali [...] In Thailandia, sostiene la
studiosa, il rapporto tra sessualità ed identità non è forte come in Occidente.
E' la ragione per la quale noi non possiamo essere sicuri che il danno causato
alle bambine di questo Paese sia altrettanto grave di quello che colpisce le
bambine occidentali. Che le bambine abbiano molti modi di sfuggire alla loro
identità di prostitute, parlando degli acquirenti del sesso come dei loro
<<amici>> e non menzionando la prostituzione, ma dicendo di
<<avere degli ospiti>> o di <<divertirsi con degli stranieri>>,
dimostra per Montgomery che la prostituzione non costituisce un elemento
centrale della loro costruzione identitaria. Non si può dunque affermare con
certezza che essa altera la loro identità. L'altro elemento positivo, secondo
lei, è il fatto che le bambine più grandi diventino madame (magnaccia) delle
più giovani [...]
Pare che non ci sia modo per una bambina
prostituita tailandese di comportarsi in maniera tale da impedire a Montgomery di vedere in lei un
soggetto attivo.
L'essere
invulnerabile
Perché questo timore della vittima? Perché è così
importante affermare che le prostitute non sono in alcun caso delle vittime?
Come tutti i sistemi che accettano le
diseguaglianze, l'ordine neoliberista detesta le vittime. Parlare di un essere
umano senza difese, di un essere vulnerabile, presuppone in effetti che sia
necessario instaurare una società giusta e afferma il bisogno di una protezione sociale. Rendere
tabu la nozione di vittima è un passo necessario alla legittimazione della
barriera che separa le classi sociali e i sessi. Questo processo è costituito
da due fasi.
In primo luogo, bisogna affermare che la vittima è,
per definizione, una persona debole, passiva ed impotente. Poiché le persone
vulnerabili sono, nonostante tutto, combattive e sviluppano numerose strategie
per dominare la situazione, <<si scopre>> che l'idea che ci è fatti
della vittima è sbagliata. La persona vulnerabile non è passiva, al contrario!
Quindi, ci dicono, bisogna abolire la nozione di vittima. Di conseguenza, noi
dobbiamo accettare l'ordine sociale - la prostituzione, la società divisa in
classi, le diseguaglianze - se non vogliamo etichettare le persone come esseri
passivi e impotenti.
C'è qualcosa di bizzarro in questa definizione
della vittima. Secondo il Glossario dell'Accademia svedese, una vittima
è <<qualcuno o qualche cosa che diventa
un bersaglio per qualcun altro o per qualcos'altro>> o che
<<subisce qualcosa>>. Ciò significa, quindi, che una persona è
vittima di qualcuno o di qualcosa. Ma
nulla qua si dice del carattere della vittima - si tratta soltanto di ciò che una persona subisce da parte di qualcuno,
qualcuno che la picchia, la stupra, è violento o la sfrutta in un modo o
nell'altro.
Tuttavia, la definizione neoliberista della vittima
fa riferimento ormai al fatto che essa sia un tratto del carattere. Essere
vittima significa essere una persona debole. Noi siamo o vittime passive o
soggetti attivi. Non si può essere contemporaneamente l'una e l'altro.
[...] In fondo, se non ci sono vittime, non ci
possono essere neppure aggressori. Così, in un modo al contempo molto comodo e
inavvertibile, coloro che non vengono mai menzionati - gli uomini- vengono
discolpati. Negli scritti di Augustìn, Dodillet e Montgomery, gli uomini sono come
ombre sul muro, come figuranti, che appaiono di sfuggita, ma che,
miracolosamente, vedono finalmente legittimati tutti i loro desideri. Mentre ci
si concentra sulle donne e sui bambini - che sono studiati, intervistati,
computati e descritti -, nello stesso tempo non si rivolge alcuna domanda agli
uomini. Nemmeno la più importante di tutte: perché fate questo?
La frase << è un soggetto, non una
vittima>> non è di moda soltanto nel dibattito sulla prostituzione. Noi
la sentiamo ripetere in numerose occasioni, si propaga nell'atmosfera come i
ciuffi di peli del tarassaco e mette radici dappertutto. Nel discorso concernente le persone che si trovano in una
condizione di vulnerabilità, viene incessantemente replicata l'espressione: sono
soggetti, non vittime....
[...] Dobbiamo confrontarci quasi tutti i giorni
con una retorica che dipinge la condizione della vittima come qualcosa che ha a
che fare con il suo comportamento. La si giudica e la si esorta a non essere
vittima! E' orribile essere una vittima! La nozione di vittima è intesa come un'identità, alla quale è
associata una moltitudine di caratteri detestabili che si dovrebbero rifuggire.
La dottrina dell'essere invulnerabile diventa così un imperativo categorico che
definisce la condizione dell'individuo liberale e responsabile. Per
definizione, qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo
vederci come esseri forti ed attivi. I disoccupati e le disoccupate, gli
ammalati, i rifugiati- nessuno deve essere percepito o considerato vittima!
[...] L'opposizione tra soggetto e vittima è al
contempo asimmetrica e sbagliata [...] Con ogni evidenza, il contrario di
"soggetto" non è "vittima", ma "oggetto". E il
contrario di "vittima" non è "soggetto", ma "aggressore".
In effetti, l'opposizione soggetto-vittima esprime l'idea che la vittima sia
un oggetto. Di conseguenza, la persona che diventa una vittima non è più un
essere umano che pensa, nutre dei sentimenti ed agisce. Questa falsa
opposizione rivela un abissale disprezzo per qualsiasi forma di debolezza.
Kajsa Ekis Ekman
Fonte originale: http://sisyphe.org/imprimer.php3?id_article=4415