Inauguro una sezione opinioni nel mio blog dove pubblicherò traduzioni di articoli di attiviste femministe straniere, pubblicando un post apparso sul blog Feminist current di Meghan Murphy (nella foto, tratta dal suo blog) tradotto da Maria Rossi che ringrazio.
Le posizioni delle femministe di orientamento abolizionista, che non vedono favorevolmente, cioè, una depenalizzazione degli "imprenditori" dell'industria del sesso e proprietari dei bordelli, ma desiderano un progressivo superamento del ricorso stesso all'acquisto di sesso a pagamento sono spesso riportate male e semplificate. E' fin troppo facile liquidare il loro punto di vista con l'accusa di moralismo, accusa che peraltro è quella tipica che i capitalisti dell'industria del sesso usano non appena qualcuno osa muovere qualche critica o qualche dubbio che può ostacolare il loro marketing. Eppure si autodefiniscono abolizioniste anche molte donne e ragazze che sono state vittime di tratta o sono state sfruttate nell'industria del sesso e che, una volta fuoriuscite, si battono perché non si debba ripetere all'infinito su altre la violenza che loro stesse hanno vissuto. Accomunare l'abolizionismo femminista con le posizioni moraliste e fanatiche di certi esponenti religiosi o delle ipocrite politiche tipiche del "gendarme di Washington" che criminalizzano le persone prostitute e le vittime di tratta mentre lasciano che il business dei magnaccia prosperi (similmente fanno le ordinanze xenofobe e sul decoro urbano dei nostri sindaci sceriffi) trovo sia una operazione scorretta, qualunque sia la motivazione per cui si sceglie di far ciò e qualunque sia la propria legittima opinione in materia.
Non c’è nessuna guerra femminista contro le sex workers
Meghan Murphy
Meghan Murphy
Mi sento sempre più
scoraggiata da ciò che sembra un fuoco di fila di articoli, scritti da persone
che si dichiarano progressiste, che sostengono che le femministe sono il vero
nemico delle sex workers. Sembrerebbe che alcune di coloro che si definiscono “attiviste
per i diritti delle sex workers” siano determinate a creare rigide divisioni
tra donne collocando le donne prostituite in una loro propria categoria e le
femministe in una fantomatica guerra moralista contro il sesso.
Un fattore chiave è che molti giornalisti di sinistra o fraintendono o travisano l’approccio abolizionista descrivendolo come moralista, il che li porta a trarre conclusioni infondate basate su equivoci facilmente superabili attraverso una semplice conversazione.
Sono delusa dal fatto che il giornalismo, la sinistra e il movimento femminista siano arrivati a produrre un’ideologia manipolativa allo scopo di promuovere una causa controproducente, ma siamo a questo punto.
Un fattore chiave è che molti giornalisti di sinistra o fraintendono o travisano l’approccio abolizionista descrivendolo come moralista, il che li porta a trarre conclusioni infondate basate su equivoci facilmente superabili attraverso una semplice conversazione.
Sono delusa dal fatto che il giornalismo, la sinistra e il movimento femminista siano arrivati a produrre un’ideologia manipolativa allo scopo di promuovere una causa controproducente, ma siamo a questo punto.
Vi sono un certo numero di
esempi recenti di questa distorsione.
Reason, una rivista libertaria on-line, ha recentemente pubblicato un
articolo intitolato "The War on Sex Workers" (La guerra contro le sex
workers). L'autrice, Melissa Gira Grant, critica la criminalizzazione delle
donne prostituite negli USA - un giusto impegno: non c'è dubbio. Ma anziché contestare
un sistema iniquo e oppressivo che offre alle donne emarginate poche opzioni di
vita al di fuori dell'industria del sesso e poi le criminalizza perché fanno
ciò per sopravvivere (fondamentalmente viene criminalizzata la povertà) e
contrastare una cultura porno che presenta streapt tease e pornografia come
professioni che accrescono il potere e l'autonomia delle donne, Grant accusa le
femministe.
Ella scrive:
<<Non tutte le persone
che svolgono un lavoro sessuale sono donne, ma le donne soffrono in modo smisurato
lo stigma, la discriminazione e la violenza contro le sex workers. Il risultato
è una guerra contro le donne quasi impercettibile, a meno che facciate
personalmente parte del mercato del sesso. Questa guerra è condotta e difesa in
gran parte da altre donne: da una coalizione di femministe, da conservatori e
anche da alcune/i attivisti dei diritti umani che assoggettano le sex workers
alla povertà, alla violenza e all'incarcerazione - tutto ciò in nome della
difesa dei diritti delle donne>>.
Questa "guerra contro le
donne" non è impercettibile. Infatti, uno dei caratteri che rende questa
"guerra" visibilissima, è il fatto che l'industria del sesso abbia
una connotazione di genere. Le donne costituiscono la stragrande maggioranza
delle prostitute (secondo le statistiche circa l'80%) e, oltre a ciò, le donne
di colore sono sovrarappresentate. A
Vancouver, nel famigerato Downtown Eastside della British Columbia,
soprannominato "il codice postale più povero", dove almeno 60 donnesono scomparse in circa 20 anni, il 70% delle prostitute sono donne delle PrimeNazioni (= autoctone). Considerando che il popolo delle Prime Nazioni
costituisce circa il 2% della popolazione complessiva di Vancouver e il 10% di quella di Downtown Eastside, questo numero
è significativo.
Non c'è bisogno di appartenere al mercato del sesso per sapere che la
prostituzione e la violenza contro le donne che si prostituiscono è il
risultato di una combinazione molto efficace di razzismo, povertà e
patriarcato.
Le femministe sono impegnate da decenni contro queste oppressioni che si
intersecano e allora perché gli scrittori progressisti sono così riluttanti a
riportare in modo preciso i dibattiti sulla prostituzione?
Jacobin, una rivista che viene
accreditata come appartenente alla corrente principale del marxismo, si è
occupata più volte del tema del lavoro sessuale. Apparentemente la linea
favorevole al concetto di <<sesso come lavoro>> ha conquistato così
tante pubblicazioni di sinistra, che le discussioni sulla questione rimuovono
completamente la prospettiva abolizionista o semplicemente ne travisano gli
argomenti.
Laura Augustin, per esempio, scrive: << Il turbamento morale che avvolge
la prostituzione ed altre forme di sesso commerciale si fonda sull'asserzione
che la differenza tra il sesso buono e virtuoso e il sesso cattivo e dannoso
sia ovvia>>. Ella concepisce le concezioni dissenzienti come repressive e
puritane - tipiche di persone che hanno limitato la loro accettazione del sesso
al letto matrimoniale -, una concezione che è l'antitesi di decenni di lavoro
femminista che ha decostruito le nozioni di romanticismo e di monogamia e ha
collocato saldamente il sesso all'interno di un contesto politico.
Augustin confonde ulteriormente le cose, affermando che "non vi è
nulla di intrinsecamente maschile nello scambio tra denaro e sesso", come
se ciò fosse mai stato sostenuto. "Da chi?" ci si potrebbe chiedere.
In effetti questo è ciò che le femministe hanno sostenuto per decenni: che non
c'è nulla di "intrinseco" o di "naturale" nel fatto che gli
uomini acquistino sesso dalle prostitute, ma si tratta piuttosto di un prodotto
della nostra cultura fondata sulla diseguaglianza e sul potere maschile.
Ignorando le concezioni femministe sul lavoro sessuale e rimuovendo la
connotazione di genere dell'industria [del sesso]; concentrandosi
esclusivamente sul lato "lavoro" del lavoro sessuale, si rende un
cattivo servizio alle donne e al movimento femminista, così come al lettore di
sinistra che si ritrova completamente confuso e con una comprensione imprecisa
della realtà del settore e del dibattito.
Un altro pezzo di Jacobin
prosegue questo progressivo lavoro di lettura della questione della
prostituzione attraverso la lente del "lavoro". In questo articolo:
"The Problem With (Sex) Work", (" Il Problema con il lavoro
sessuale") Peter Frase sostiene che "il problema nel caso del lavoro
sessuale non è il sesso, è il lavoro".
Questo è un errore che commettono molti uomini socialisti quando tentano
di affrontare l'argomento, in quanto assumono che applicare [ad esso] l'analisi
del lavoro significhi necessariamente essere un esponente della sinistra.
Mentre Frase osserva che ci sono problemi a concludere soddisfatti che il
lavoro sessuale costituisca una fonte di autonomia e di espressione di sé,
sorvolando sui suoi aspetti meno glamour, perché "non si possono
trascurare gli aspetti coercitivi e violenti del sesso", egli glissa sulla
posizione abolizionista (cioè delle femministe che vogliono impegnarsi perché
la prostituzione abbia fine) come se fosse irrilevante. Con questo sforzo di fare
della prostituzione un lavoro come un altro (forse pessimo) (come scrive Frase:
"è un lavoro, e il lavoro è spesso terribile"), la sinistra abbandona
le donne ai capricci degli uomini e del
mercato, mentre voi pensate che noi [della sinistra] desideriamo un mondo più
equo che vorrebbe superare la situazione attuale.
Grant ha pubblicato anche un pezzo in Jacobin in cui esprime la sua frustrazione nei confronti di coloro "che hanno la
vocazione a salvare le donne da se stesse e a farne le proprie beniamine"
"che sono così fissati con l'idea che quasi nessuno avrebbe scelto di
vendere sesso da perdere di vista le monotone e quotidiane scelte che tutti i lavoratori
compiono per guadagnarsi da vivere". Ma
questo argomento trascura il fatto che la scelta avviene entro un raggio
di azione e in un contesto di diseguaglianza e che l'industria del sesso fa
parte di un più ampio sistema che sessualizza l'oppressione delle donne.
L'argomento secondo cui le femministe stanno cercando di "salvare
le donne da se stesse" è pericoloso, perché può essere facilmente
applicato, per esempio, all'attivismo femminista relativo agli abusi domestici
(e se lei vuole stare con il marito violento?) e può essere esteso ad una
troppo zelante difesa della 'scelta' individuale delle donne di oggettivare se
stesse. Vogliamo in modo così intenso che non siano vittime da cercare di
tramutare l'oppressione in autodeterminazione.
Malintesi sulle concezioni femministe relative alla prostituzione sono
esplicitamente alimentati da articoli come quello di Grant, ma vengono
ulteriormente consolidati quando altri scrittori non risultano disposti a
rappresentare correttamente le posizioni.
La rivista Fuse ha pubblicatoun articolo di Robyn Maynard, nel numero intitolato Abolition, nel quale ella critica quello che definisce il
"femminismo carcerario". Cita il caso Bedford, in cui le leggi
canadesi sulla prostituzione sono state denunciate come incostituzionali, come
un esempio di opposizione, guidata dalle sex workers, al 'proibizionismo', come
erroneamente lo definisce.
Maynard sostiene che questo caso sia stato sollevato da donne emarginate.
Così facendo, rimuove il fatto che i gruppi di donne delle Prime Nazioni
dell'intero Canada supportano il movimento abolizionista ed hanno più volte
affermato che la prostituzione delle donne indigene è la diretta conseguenza della colonizzazione.
La Native Women's Association of Canada (NWAC) ha recentemente approvatouna risoluzione che sostiene l'abolizione della prostituzione, affermando che:
"la prostituzione sfrutta ed accresce la diseguaglianza delle donne e
delle ragazze aborigene basata sul genere, sulla razza, sull'età, sulla
disabilità e sulla povertà".
La Native Women's Association of Canada prosegue affermando:
Le donne aborigene sono fortemente sovrarappresentate nella prostituzione
e tra le donne che sono state uccise nell'ambito della prostituzione. Non è di
alcun aiuto dividere le donne che si prostituiscono tra quelle che hanno
"scelto" e quelle che sono state "costrette" a
prostituirsi. Nella maggior parte dei casi, le donne aborigene sono reclutate
nella prostituzione da ragazze e /o sentono di non avere altra scelta a causa
della povertà e degli abusi subiti. E' l'industria del sesso che incoraggia le
donne a vedere la prostituzione come un'identità scelta.
Un'altra organizzazione: Indigenous Women Against the Sex Industry
(IWASI) (Donne Indigene contro l'industria del sesso) afferma che esse
riconoscono l'industria del sesso "come una continua fonte di colonialismo
e di danno per le donne indigene e per le ragazze di tutto il mondo" e si
pronuncia contro "la totale depenalizzazione, legalizzazione o
normalizzazione dell'industria del sesso".
Nel suo articolo, Maynard ignora volutamente il fatto che il caso Bedford
non è, in realtà una causa promossa da sex workers, bensì una causa intentata da un uomo bianco, Alan
Young, il cui interesse a vincerla non è quello di depenalizzare la prostituzione
di strada, bensì quello di legalizzare i bordelli. Con la consapevolezza che le
donne più emarginate tendono ad essere quelle che praticano la prostituzione di
strada e che a queste donne non sarebbe probabilmente offerto il
"privilegio" di lavorare all'interno di un qualsiasi bordello legale,
l'argomento secondo cui, in qualche modo, questa causa costituisce una
battaglia a favore dei diritti delle donne emarginate è semplicemente falso.
Vale la pena notare che la legalizzazione dei bordelli in luoghi come Amsterdam
si è rivelata un completo disastro e ha prodotto solo un incremento della
tratta e del crimine organizzato.
Per qualche ragione, anche alcune femministe hanno iniziato a partecipare
all'elaborazione di queste rappresentazioni errate.
Laurie Penny, la cui analisi progressista e femminista è generalmente
accurata, sembra aver perso la bussola quando ha scritto sul New Statesman che le femministe che
erano critiche nei confronti dell'industria del sesso erano semplicemente
contrarie al sesso, opponendosi alla prostituzione e alla tratta per ragioni
morali:
Questo accade perché il sesso fa parte di quelle attività che causano un
autentico orrore morale nei gelidi corridoi dei borghesi.
In realtà, le abolizioniste si battono contro la prostituzione sulla base
di un'analisi che combina classe, razza e genere, oltre che, naturalmente,
sulla base della difesa dei diritti umani delle donne. Questo non ha nulla a
che vedere col fatto che il sesso piaccia o non piaccia. Che delle femministe
stiano appropriandosi e stiano perpetuando uno stereotipo antifemminista
inventato da uomini sessisti - che le femministe hanno solo bisogno di una
bella scopata o che odiano tutti gli uomini/il sesso/ il divertimento - mostra
la potenza del contrattacco. Ora noi ci stiamo facendo la guerra. Stiamo
appropriandoci di quel che il patriarcato ci sta vendendo.
Penny scrive: "In realtà, il lavoro sessuale non è stigmatizzato
perché pericoloso. Il lavoro sessuale è pericoloso perché è
stigmatizzato". Ma si sbaglia. Il lavoro sessuale è pericoloso a causa di
coloro che commettono atti di violenza contro le prostitute - cioè, gli uomini.
La chiave del successo del movimento femminista sta nell'aver attribuito
un nome al colpevole. Andrea Dworkin è stata una delle prime a far questo; a
dire che il problema sono gli uomini. Così ha creato una fondazione per offrire
un supporto legale contro gli abusi domestici, per lottare contro le molestie
verbali, le aggressioni sessuali e la colpevolizzazione delle vittime. Non
fingiamo di non sapere chi molesta sessualmente le donne o chi, in genere, le stupra. Noi sappiamo fare di meglio che incolpare le
donne per le aggressioni che subiscono- indipendentemente dagli abiti che
indossano o da quanto abbiano flirtato o bevuto. Perché ci mette così a disagio
attribuire un nome alla reale causa della violenza quando si tratta di
prostituzione? Perché stiamo incolpando le donne?
L'obiettivo del femminismo è di porre fine al patriarcato. L'obiettivo
del socialismo è di creare un'alternativa egalitaria al capitalismo. La
prostituzione è un prodotto del patriarcato e del capitalismo. Avendo questo in
mente, le abolizioniste hanno patrocinato un modello fondato sulla vera equità.
A volte descritto come "approccio svedese" o come "modello Nordico",
la Svezia, la Norvegia e la Finlandia hanno tutte adottato versioni di questo
approccio femminista alla prostituzione che depenalizza le prostitute e
criminalizza coloro che commettono violenza: gli sfruttatori e i clienti. Il
modello combina i servizi di uscita dalla prostituzione con un sistema di
welfare già forte e con programmi di formazione per la polizia che insegnano
che le donne prostituite non sono criminali. Non si tratta semplicemente di un
mutamento della legislazione, si tratta di una visione politica che persegue
l'obiettivo della uguaglianza economica e di genere. Come avvocata femminista
Janine Benedet mi ha detto: " è responsabilità dello Stato offrire
qualcosa di meglio e non usare la prostituzione come una rete di sicurezza
sociale".
E' stato recentemente pubblicato in lingua inglese uno studio norvegese
che esamina i tassi di violenza contro le donne prostituite nel modello
nordico. Il rapporto ha dimostrato che, dal 2008, gli stupri ed altre forme di
violenza fisica contro le donne prostituite sono diminuite.
La triste verità è che, se l'acquisto di sesso è legale, la polizia
probabilmente non perseguirà i clienti
che stuprano e abusano delle prostitute, senza il loro consenso. Lo sappiamo.
Sappiamo che la polizia ha ignorato per anni le violenze contro le donne
prostituite, specialmente contro quelle che sono povere e di colore. Sappiamo
che il sistema della giustizia penale accusa spesso la vittima, in particolare se
i giudici possono dire: "Beh, lui l'ha pagata!". La via più
praticabile per combattere questa violenza consiste nel depenalizzare le donne prostituite,
criminalizzare i clienti e formare la polizia. Se gli sfruttatori della
prostituzione e i clienti vengono criminalizzati, le sex workers saranno almeno
in grado di andare dalla polizia se sono stuprate o aggredite e la polizia sarà
in grado di agire rapidamente.
Sappiamo che non sono le femministe che stanno perpetrando violenza
contro le sex workers. Sappiamo anche che le femministe non colpevolizzano la
vittima, il che significa che questo non è un dibattito sulla moralità delle
donne di questo settore. Perché i progressisti, nascondendo l'autore [delle
violenze], attribuiscono la colpa alle
femministe e travisano il significato del movimento abolizionista?
Le femministe non sono il nemico. Piuttosto, sono gli uomini che trattano
le donne come oggetti usa e getta che sono da biasimare. E', al contempo,
sterile e disonesto affermare che le
femministe promuovono la criminalizzazione delle donne prostituite, quando una
delle poche cose che le femministe e gli altri che propugnano la fine della
violenza contro le prostitute possono condividere è che il nodo cruciale
consiste nel depenalizzare le donne prostituite.
Le donne che io chiamo mie amiche ed alleate sono donne che hanno
lavorato nell'industria del sesso, sono donne che lavorano instancabilmente in
rifugi [per prostitute], compiendo un lavoro di sensibilizzazione, o che vi
lavorano come avvocate, come accademiche e come attiviste. Le donne che ammiro
e da cui ho imparato - donne che hanno plasmato il movimento - donne come Robin
Morgan, Gloria Steinem e Andrea Dworkin - sono state collocate sull'altra linea
di una sorta di guerra contro le donne.
Queste donne meritano di più di etichette imprecise e prive di
significato come "anti-sex" o "proibizionista". Queste
femministe non hanno accusato le donne prostituite, sono donne che vogliono che
gli abusi, gli stupri, i pestaggi e gli omicidi abbiano fine. Credo che anche
quelli che si definiscono "difensori dei diritti delle sex workers" o
"alleati delle sex workers" vogliano questo. Non ho alcun interesse a
creare divisioni inutili o sleali.
Questo è un movimento, non una guerra.