Oggi è la giornata europea contro la tratta di esseri umani. Non trovo niente di meglio per questa giornata che postare una lettura di alcuni brani dal libro
"Le ragazze di Benin City" di Isoke Aikpitanyi. Un altro brano tratto dal libro l'avevo postato
qui, mentre
qui ho recensito il secondo libro, "500 storie vere".
Chi tiene alle
ragazze, anche solo come si tiene a una merce da sfruttare, non farà mai fare
loro un viaggio così terribile. Vuole che tu arrivi sana e salva e in buone
condizioni. Buone vuol dire: abbastanza da lavorare. Subito.
Il viaggio nel deserto lo fanno i ragazzi che non hanno
trovato un’organizzazione, o le ragazze che proprio vogliono venire via e non
hanno i soldi per pagare e sono disposte a morire nel provarci.
Ma una maman che fa questa cosa alle sue ragazze, ecco: è il
peggio che puoi trovare, quando arrivi in Europa.
Come Carol di Brescia.
Chiedi in giro, la conoscono tutte.
Carol ha fatto un viaggio orribile, anni e anni e anni fa.
E’ stata una delle prime donne che sono partite, coi primi giri, quando ancora
non c’era tanta organizzazione. Partivi e via. A volte arrivavi, a volte no.
Solo quando si è capito che le ragazze sono un business
redditizio sono cominciati i giri mafiosi, l’organizzazione capillare, i viaggi
studiati in modo che la merce arrivasse in condizioni migliori. E’ stato allora
che hanno cominciato a coinvolgere anche le famiglie nei contratti, così da
avere un controllo all’origine.
Ma questa è un’altra storia, e te la racconto dopo.
Adesso ti dico che Carol ha fatto un viaggio spaventoso.
Attraverso il deserto. Non ti so dire i dettagli ma ti dico
solo che chi l’ha ordinata era una che se ne fregava, come la maman di Osas. A
un certo punto del viaggio a Carol si sono congelate le dita delle mani. Dice:
era la mia mano sinistra, per l’esattezza. E mica l’hanno portata all’ospedale.
Gliele hanno tagliate lì dove stava, con una specie di machete.
Quando è arrivata in
Italia l’hanno mandata sulla strada.
Lei ha detto no, non voglio, non posso. Ha mostrato il
moncherino: guardate la mia mano, ha detto. Guardate, ha detto, io non sono in
grado di lavorare.
Per fare il lavoro che devi fare, le mani non ti servono.
Proprio così. E’ questo che le hanno detto.
E la Carol di allora non era ancora la Carol di oggi, era
una ragazza come le altre, una che non è riuscita a reagire, che è andata a
lavorare, e lavorando ha pagato il debito. Quando ha finito di pagare ha detto:
voglio fare i soldi anch’io. Io con questa mano non posso fare altri lavori.
Ha ordinato anche lei una ragazza e adesso ne ha più di
dieci che lavorano per il suo guadagno, e alle prime ha fatto fare tutto il
viaggio lungo, esattamente come le era toccato di fare.
Per vendetta, dici.
Può essere.
Oggi come maman è spietata.
Quando una ragazza si ribella, lei dice: cosa credi, guarda
le mie mani, non ci metto niente a tagliarle anche a te.
Le sue ragazze dicono che picchia, picchia, picchia. Basta
un niente e lei picchia. Ha un marito nigeriano che va a controllare le ragazze
sul marciapiede, e poi fa la spia. Soprattutto d’inverno. Quando nevica o
ghiaccia e devi stare fuori tutta la notte sotto lo zero. Quando sulla strada
tutte accendono il fuoco, ed è normale, perché se non ti scaldi un po’ finisci
congelata. Ebbene: lei non lascia mai andare le sue ragazze vicino al fuoco.
Se una ha interrotto il lavoro per scaldarsi, e ha
guadagnato anche solo un euro meno del dovuto, sono botte su botte.
Carol la riempie di botte.
Dice: ti faccio passare io il freddo.
Dice: guarda le mie mani e muoviti.
Quando dico che si muore dentro
devi credermi.
Ci sono dei momenti in cui è
tutto così spaventoso e osceno e intollerabile che non puoi stare lucida e
sopravvivere. A meno di non impazzire.
Qualcuna infatti impazzisce.
Altre si riempiono di alcool, o
di eroina, o di medicine come gli antistaminici che ti ovattano la testa così
non pensi più a niente.
Altre ancora si rompono, dentro.
Diventano perfettamente
insensibili.
E quando alla fine escono dal
trambusto, l’unica cosa che sanno dire è: anch’io voglio fare i soldi, e
chissenefrega delle altre. Prima è
toccato a me, adesso tocca a loro.
E’ così che va il mondo, dicono.
E
forse è il loro modo di venire a
patti con quello che hanno passato. Di farsene una ragione.
Comunque Osas ha finalmente potuto
avvertire i suoi. Ha chiamato sua mamma, per dirle cos’è successo.
Meno male, ha detto la madre. Sei
viva, sono contenta.
Per due anni non aveva saputo che
fine avesse fatto sua figlia.
Osas ha detto: sono viva, ma
guarda cosa mi fanno fare.
Ma né suo padre né sua madre sono
andati a protestare con la mamma della maman. Hanno detto solo va bene,
l’importante è che sei viva.
Osas ha detto: ma non sai la vita
che faccio. E che freddo. E sua madre: non esagerare, in Italia si lavora nei
locali, si sta al caldo.
Mamma, bisogna vendersi.
Ma sua madre non ha mai fatto
problemi. Si vede che sapeva dal principio, dico io.
E a quel punto Osas non si è più
ribellata con nessuno. Dopo quello che aveva passato nella foresta e nel
deserto, ora si ritrovava così, senza documenti e senza soldi, e con sua mamma
che diceva va bene, non importa, lavora. Non aveva un posto dove scappare. A
casa non la rivolevano. Che cosa poteva fare se non chinare la testa e dire: va
bene.
(p.42-45)
[…]
Intanto l’organizzazione va a far
casino a casa tua. Loro lo sanno: prima o poi ‘sta ragazza chiamerà i suoi
genitori. Quindi tengono d’occhio la tua famiglia, se riceve telefonate o
lettere. E allora vanno in casa e dicono: la ragazza deve rispettare i patti,
altrimenti vi ficcate nei guai.
E’ una minaccia che funziona
sempre, soprattutto quando sono stati i genitori ad accompagnare le famiglie
dagli italos, come negli ultimi due o tre anni.
Ragazzine di tredici, quattordici anni. L’organizzazione le cerca così
giovani perché sono più facili da gestire, e prima che riescano a capire le
cose passa molto tempo. Prima che comincino a essere veramente donne, adulte, e
capire cosa gli hanno fatto fare, e cosa gli hanno fatto.
Così alle feste di paese, ai
matrimoni, ai funerali, c’è sempre qualcuno che filma le ragazze, e poi le
maman guardano il film: quella è bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo
vecchia, quella sì che va bene. Quella piccolina lì. E’ lei che voglio.
E quando la scelta è fatta lo
sponsor va dalle famiglie con dei regali. Dice: in Europa hanno bisogno di
belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta. Perché non ci
pensate?
E la famiglia quasi sempre dice
di sì. Anzi, adesso sono le madri e i padri a muoversi, a portare le loro
figlie. Sanno che in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le
ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia si è fatta la macchina, ha
comprato casa. Allora dicono: anch’io.
Sanno tutto, secondo me.
Ultimamente sì, lo sanno.
Ma il paese non offre niente. E
loro pensano che sì, questa figlia la mandano a fare una vita difficile, ma
almeno così avranno un aiuto, potranno far studiare i bambini, comprarsi il
mangiare, i vestiti, la casa.
(p. 47)
[…]
Perché è questa , forse ancora
più del debito, la catena più difficile da spezzare per le ragazze. La catena
dei mille obblighi familiari e delle mille responsabilità che te ne vengono.
Dell’affetto. Della pena. Del desiderio comunque di essere accettate, e di
pensare che al mondo, anche per te, anche se vivi in schiavitù su un
marciapiede e ogni giorno muori di freddo e di angoscia, esiste ancora una
casa. E’ per alimentare questo miraggio che ti ritrovi a mantenere dieci o
dodici persone, e a fargli fare una bella vita mentre tu vivi peggio di un cane.
Ed è molto difficile dire: basta.
Ma se vuoi salvarti devi farlo.
Devi chiudere una porta in modo molto deciso, e trovare il coraggio di aprirne
un’altra, anche se non sai che cosa c’è dietro. Io dico: un nuovo modo di
vivere, di pensare, di stare al mondo. Ma è come chiudere gli occhi e tuffarsi
dentro a un mare molto freddo, dico anche, senza sapere nemmeno se sei in grado
di nuotare.
Però devi farlo.
Devi trovare il fegato di dire:
il mio viaggio è stato tutto un fallimento.
Ed ecco, vedi, è da quel
fallimento che può nascere una nuova vita.
La rabbia è la prima cosa che
esce, quando dici basta.
Una rabbia furiosa e
incontenibile verso tutto e verso tutti.
Finché come Osas arriva il giorno
che dici: la mia rabbia adesso è per la Nigeria, un paese pieno di rosorse ma dove la gente vive
in maniera miserabile.
Dove non c’è speranza di cambiamento o di miglioramento per
nessuno.
Ed è per questo che i giovani
vogliono partire, dice. Perché sono stanchi di sognare davanti alla
televisione, e perché vogliono provare a farsi una vita migliore.
Io, Isoke, adesso non ci credo
più che esiste il paradiso: ma un giorno anch’io ci credevo, e pensavo che
fosse fuori dalla Nigeria. Non ne potevo più di stare in un posto dove i poveri
sono poverissimi e i ricchi sono ricchissimi, a due metri soli da casa tua. Tu
non hai la penna per scrivere e i libri per andare a scuola, la tua famiglia
fatica a darti da mangiare, e i tuoi vicini danno il roast beaf al cane. Ma
come fai ad accettarlo? Tu non mangi abbastanza e al villaggio vengono i
parenti ricchi: vieni in città che ti faccio studiare. E poi ti ritrovi in casa
loro a fare la serva.
Non si può.
Tu vedi tutta quest’ingiustizia e
la rabbia nasce lì, la rabbia e la voglia di scappare, di conquistare qualcosa
di meglio.
Ma che c’è di male a sognare?
Nulla, dico io.
Il male lo fa chi si approfitta
dei tuoi sogni.
Le ragazze come Osas cominciano a
capire.
Guardano la loro storia e
capiscono.
Che hanno dovuto assumersi troppe
responsabilità fin da piccole, ed è per sfuggire a quelle responsabilità che
sono finite nella tratta. Ma la tratta non è la soluzione per i problemi della Nigeria. Se le famiglie non hanno i
soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora
devono fare la loro parte: che protestino. Si assumano le responsabilità di
chiedere ai padroni e al governo dei salari migliori, delle scuole migliori,
una migliore qualità della vita.
Non è vendendo le loro figlie ai
trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente.
Io tutte queste cose prima non le
pensavo. Le vedevo e le pativo; ma è solo adesso che le ho finalmente chiare
dentro la testa, e ho imparato anche ad esprimerle con le parole. Sono molto
diversa dalla ragazza di vent’anni che un giorno è partita da Benin City con lo
zaino della scuola e il suo unico paio di blue jeans. Nel male come nel bene,
vedi, quest’esperienza mi ha fatto crescere.
Per esempio ho capito che le cose
non sono mai tutte bianche o tutte nere, che non c’è il buono e il cattivo, la
vittima e il carnefice.
E quindi ora ti spiego che la
tratta non è solo un problema di sesso, di puttane e di clienti. La tratta è
innanzitutto un affare colossale. Un business. E’ una schiavitù che rende un
mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto
accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la
maman che ho visto su un giornale, seduta su un divano a Benin City, circondata
da pile alte così di soldi. Ci sono anche i bianchi perbene, quelli che non
picchiano mai i figli o la moglie, quelli che magari la domenica vanno in
chiesa, hanno un bel cane, bravi vicini, una reputazione su cui non appare mai
l’ombra di una macchia. Sono questi che vendono i visti, che organizzano i
viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro agli aeroporti. Sono
i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari. Un
sacco di brava gente che ha fatto fortuna grazie al traffico delle ragazze di Benin City.
Ma agli occhi di tutti sono loro
le cattive.
Le puttane.
Quelle che danno scandalo per le
strade.
Quelle che pagano sempre per
tutti.
(p. 195-198)
[…]
L’ultima storia che ti racconto è
quella di mia sorella.
La mia sorella più piccola,
quella che adesso ha poco più di vent’anni. Ne aveva quattordici quando sono
partita. Mi ricordo a malapena una ragazzetta magra, con le gambe molto lunghe.
Le treccine nei capelli. Gli occhi grandi così.
Pochi mesi fa mi ha detto che era
incinta e che voleva venire in Europa.
Aveva trovato un viaggio, anche
lei.
Ha detto: finalmente ho la mia
bella occasione.
La sua bella occasione.
Ho chiuso gli occhi e dentro di
me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia.
Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la
Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie.
A malapena ho trovato la voce per
dire: guarda, se vuoi sognare, sogna.
Ma la realtà qui è ben diversa
dai sogni.
Ascolta.
Ho preso, il cuore in mano e ho
cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono.
L’esistenza brutta che fanno.
Era la prima volta che trovavo il
coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: di dire tutto, tutto!, senza
risparmiare un solo dettaglio. Vedi: non potevo tacere, stavolta. E dunque, con
la bocca secca, le ho spiegato tutto come si deve. Le ho detto il freddo e le
botte e le scarpe ridicole e la paura. I venticinque euro e il Ditoi e Ithoan
trovata da un cane tutta mangiata dai topi.
Non pensare di essere più furba
delle altre, ho detto.
Non sperare di essere diversa.
Non pensare che a te andrà
meglio.
Ecco cosa le ho detto.
Lei ha solo chiesto: è successo
anche a te.
Ho detto: sì.
E di venire in Europa non ha più
parlato.
Devo proprio dirtelo, che sono
felice?
(p. 199-200)